domenica 8 gennaio 2012

Miti, Leggende e ... Misteri

Il Conte Cagliostro

IL CONTE DI CAGLIOSTRO
E’ il 1743 quando, in una Palermo affollata e sporca, nasce Giuseppe Balsamo, figlio di un piccolo mercante dalla vita breve. Dopo la morte del padre, vive con gli zii materni, ma presto comincia a farsi notare per una pericolosa irrequietezza, che gli farà commettere piccoli reati, truffe e liti. A modo suo è un capo, bravo nelle falsificazioni e nella chimica. Un animo ribelle che negli anni conoscerà più di un carcere e verrà rinchiuso a Roma a Castel Sant'Angelo, alla Bastiglia di Parigi, a Londra, a San Leo e a Palazzo Marchesi a Palermo.
A 23 anni è costretto a fuggire da Palermo in direzione di Messina.
La sera del suo arrivo fa una conoscenza che non dimenticherà mai: uno strano personaggio, dalla grande barba e dalle molte nazionalità, che dice di conoscere il segreto della pietra filosofale. Il suo nome è Altotas. Sarà lui, da quello che ha raccontato Cagliostro, ad iniziarlo ai misteri degli antichi sacerdoti egiziani ed a portarlo in giro per il mondo. Egitto, Grecia, Asia minore: quello che basta per fare di Giuseppe Balsamo il "Conte di Cagliostro".
Nasce il Conte di Cagliostro
È il 12 aprile del 1777 quando, con l'iniziazione alla Massoneria a Londra, Giuseppe Balsamo diventa per tutti il Conte di Cagliostro. È presto Gran Maestro della sua Loggia londinese e subito dopo anche Gran Cofto di un rito tutto suo, quello della Massoneria Egiziana. Ma come è arrivato a tanto? Cercando la rinascita dell'uomo, con esercizi spirituali e osservando sei comandamenti e tre imperativi che comprendono l'amore per Dio e per il prossimo, il rispetto del sovrano e della natura, la meditazione e la rigida applicazione delle regole dell'Ordine. Regole che lui stesso ha fissato, unendo ai rituali massonici gli antichi riti egizi e orientali che ha appreso nei suoi lunghi viaggi. Ma quello che gli ha dato il successo sarà anche la sua croce, regalandogli un processo per eresia. Per un lungo periodo Cagliostro si è guadagnato una fama senza confini in Europa. Erano famosi le sue preveggenze, le sue guarigioni ed i suoi poteri, tanto che lo scrittore tedesco Goethe, toccata Palermo nel suo "Viaggio in Italia", ha voluto vedere la casa dove era nato Cagliostro. Per anni Cagliostro viaggia per l'Europa, e di lui si dice di tutto, anche che sia solo un imbroglione. Malta, Francia, Spagna e Portogallo. Poi Londra, Bruxelles, Amsterdam, Venezia, Francoforte, Lipsia, Berlino, San Pietroburgo, Varsavia, Parigi, Strasburgo, Napoli e di nuovo Parigi. Ed ancora l'Italia, con Torino, Genova, Milano, Verona, Trento e Roma, dove verrà arrestato nel maggio del 1789.
Una collana come inizio della fine
Parigi, 1785. Cagliostro, quasi suo malgrado, si trova invischiato in quello che verrà ricordato come il maggiore scandalo del Settecento: "l’affare della collana". È consigliere dell'influente cardinale Louis Rohan, che viene contattato da due gioiellieri ai quali re Luigi XV prima di morire, aveva ordinato una favolosa collana per la sua favorita. Si cercava quindi di rivendere la collana al nuovo re, Luigi XVI, attraverso contatti segreti con sua moglie, la regina Maria Antonietta. L'opinione pubblica, però, grida allo scandalo, pensando che a corte i lussi venissero prima dei gravi problemi del Paese. Cagliostro finisce in prigione alla Bastiglia, viene assolto ma deve lasciare la Francia. Da lì a Londra e poi a Roma, seguendo la nostalgia della moglie. È la fine. Dopo umiliazioni, abiure ed un lungo processo, la cui sentenza viene letta alla presenza di papa Pio VI, Cagliostro viene trasferito «senza speranza di grazia, e sotto stretta custodia» nella fortezza di San Leo. La morte arriverà nell'agosto del 1795, dopo un carcere duro, guardato a vista, ricco di recriminazioni. Anche la sua morte e la sua sepoltura sono avvolte nel mistero ed ancora oggi ci sono persone che si inginocchiano, piangendo, nella sua cella.
Perché Conte di Cagliostro?
Tutto parte dalla madre, Felicita Bracconieri. Una sua cugina, madrina del piccolo Giuseppe Balsamo, era moglie di un borghese di Messina, un certo Giuseppe Cagliostro. Proprio Messina sarà cruciale per la vita del giovane ribelle, che li prenderà anche il nome di Alessandro Cagliostro. Un nome ancora oggi leggendario.




IL PRINCIPE DI SANSEVERO
E’ il 30 gennaio del 1710 quando nasce Raimondo di Sangro, rampollo di una famiglia che si vanta di discendere addirittura da Carlo Magno, fondatore del Sacro Romano Impero. Orfano di madre ad appena un anno ed abbandonato dal padre che prende la strada del convento senza curarsi troppo di lui, il giovane Principe cresce con i nonni, prima di partire per Roma alla volta di un collegio di Gesuiti. Torna a Napoli, ormai una delle grandi capitali d'Europa, a vent'anni, dopo aver dato prova di una spiccata intelligenza come di uno spirito indomabile. E non passa molto tempo che comincia a far parlare di sé.
Raimondo di Sangro è colto, amante dell'arte, gran mecenate e personaggio di rilievo nella vita culturale napoletana.
Un personaggio pieno di estro, naturalista e filosofo, appassionato di alchimia, di meccanica e delle scienze in genere. Insomma, all'apparenza un perfetto intellettuale illuminista.
Il palazzo dei misteri
Ma cosa avviene la notte all'interno del suo palazzo? E quello che si chiedono i napoletani sentendo rumori insoliti, strani odori, bagliori inquietanti e movimenti sospetti.
Il suo laboratorio diventa presto il luogo più leggendario della città, e la fantasia popolare gli attribuisce invenzioni incredibili come il "lume eterno", una fiamma che arde senza fine consumando minime quantità di un combustibile di sua invenzione, ottenuto, si diceva, anche tritando le ossa di un teschio umano, oppure una macchina idraulica capace di far salire l'acqua a qualunque altezza, ed una carrozza "anfibia" in grado di andare per terra e mare, con la quale attraversa il golfo di Napoli. Ma il suo vero capolavoro si trova in un vicolo stretto e buio, uno dei luoghi più misteriosi della città.
La leggendaria Cappella di famiglia
Nel 700 la Cappella dei principi di Sansevero si arricchisce notevolmente per merito proprio di Raimondo di Sangro, che chiama attorno a sé i più grandi artisti dell'epoca.
Il Principe amava molto gli esperimenti di laboratorio e preparava da solo anche le misture e i solventi per dare ai colori resistenza e vivacità. Una prova è l'affresco della cappella, La Gloria del Paradiso: i colori sono rimasti intatti per quasi tre secoli, senza bisogno di alcun restauro grazie, pare, alle sostanze usate dal Principe e ancora oggi sconosciute. Da alchimista, esercitava spesso l'arte di "sciogliere e coagulare" la materia, tanto da ottenere un particolare mastice per cornicioni, capitelli e statue, capace di restituire notevoli effetti plastici. Le stesse statue simboliche a grandezza naturale della Cappella si dice siano state ottenute grazie ad una tecnica ancora sconosciuta.
Le macchine anatomiche
Misteriose per alcuni, volgari manichini per altri: delle due figure che si trovano nel sotterraneo annesso alla Cappella, si parla ormai da secoli. Scendendo per la piccola scala di ferro, si accede ad una stanza nella quale campeggiano due grandi teche. Qui sono conservate le cosiddette "macchine anatomiche", due scheletri rivestiti con una intera rete di vene e arterie, solidificate, pare, con un processo di metallizzazione inventato dal Principe e di cui si è perso il segreto. Avrebbe, si dice, iniettato una sostanza alchemica nei corpi ancora in vita di due servitori, distruggendo l'involucro corporeo e disegnando le vene, le arterie e perfino i capillari. Ma c'è chi sostiene siano solo due scheletri, di un uomo e di una donna incinta, rivestiti da fili e cera di diversi colori. Quello che è certo è che il Principe privilegiava lo studio dell'alchimia e dell'anatomia umana, c'è chi dice per raggiungere l'immortalità. Una ricerca che potrebbe averlo portato alla morte.
Esperimenti mortali
Secondo il racconto di Benedetto Croce, pare che egli avesse scoperto un elisir prodigioso, capace di dar vita ai cadaveri, e che lo volesse sperimentare su di sé. Così diede ordine ad un servitore di tagliare il suo corpo a pezzi e di chiuderlo in un baule, in attesa della sua rinascita. Qualcuno, però, aprì prima del tempo il baule: il corpo del Principe si sollevò semivivo, urlò e ricadde subito dopo, definitivamente morto.
 
 
 
LA COMBUSTIONE UMANA SPONTANEA
Nella serata di domenica 1° luglio 1951 la signora Mary Reeser, settantasette anni, si sentiva particolarmente depressa e se ne stava sola accoccolata sulla sua poltrona preferita concedendosi una sigaretta. Verso le 21 la sua colf, signora Pansy Carpenter, le aveva dato un veloce saluto di buonanotte e si era ritirata nella sua cameretta. La Reeser però le aveva detto di non avere sonno e che si sarebbe goduta ancora un pò di quella calda notte di St.
Petersburg, in Florida. Alle 5 del mattino la signora Carpenter si era svegliata di soprassalto, fortemente disturbata da un acre odore di fumo.
Pensando alla pompa dell'acqua surriscaldata - cosa che a volte succedeva - era scesa in garage per disattivarla e quindi era tornata a dormire. Ma alle 8 in punto si era di nuovo svegliata. Questa volta era il postino, che recapitava un telegramma per la signora Reeser. Firmata la ricevuta, la Carpenter si era affrettata verso la camera della padrona. Aprendo la porta, aveva notato con grande sorpresa che il pomello era caldo, al punto da non poterlo girare. Allora si era affacciata alla finestra e aveva chiesto aiuto a due decoratori che stavano lavorando appena al di là della strada. Entrato in casa, uno di loro, messo uno straccio ripiegato sul pomello, aveva spalancato la porta. La stanza sembrava vuota, né si notavano segni d'incendio. Poi la Carpenter aveva notato un grosso buco nel tappeto, proprio nel punto in cui un tempo stava la poltrona. Perché non ne erano rimasti che pochi brandelli. Nel bel mezzo spiccava un teschio umano, ridotto alla grandezza di una palla da baseball e un grosso frammento di fegato, attaccato a una vertebra. Accanto c'era un piede ancora infilato in una pantofola di raso. Uno spettacolo raccapricciante.
La povera signora Reeser era la vittima di un inquietante e misterioso fenomeno: la combustione umana spontanea, di cui sono noti alcune centinaia di casi. Ciò malgrado, nel loro testo guida Medicina forense, i dottori S.A. Smith e F.S. Fiddes si peritano di asserire con sicumera: «La combustione umana spontanea non può verificarsi, dunque non esiste alcuna motivazione per cui se ne debba parlare in questo contesto». Ecco un esempio tipico di ottusità, in cui la scienza denigra e rinnega ciò che non si allinea alla sua aspettativa, ciò che esce dal quadro canonico che essa si è fatto della realtà fisica. Si tratta della stessa cecità che spinse il pur grande chimico Lavoisier a negare l'esistenza dei meteoriti.
Il caso della povera signora Reeser merita la citazione perché viene anche ricordato dall'esimio professor John Taylor nel suo libro Science and thè Supernatural, un libro che si prefigge di scardinare il paranormale, una piaga che, secondo Taylor, altro non fa che dare credito a eventi che non posseggono nulla di scientifico. Ciò premesso e continuamente sottinteso, tuttavia Taylor è praticamente costretto dall'evidenza ad ammettere l'esistenza di alcuni fatti singolari «ragionevolmente convalidati» che la scienza stenta a spiegare e fra questi, appunto, ricorda quello della signora Reeser.
Ventinove anni dopo, nell'ottobre del 1980, un caso di combustione spontanea viene osservato da vicino. Ne è protagonista un pilota, donna, la signora Jeanna Winchester. Mentre sta viaggiando in auto lungo la Seaboard Avenue di Jacksonville, in Florida, in compagnia di un caro amico, Lesile Scott, tutto di colpo, il suo corpo si incendia come dal nulla. La donna, terrorizzata, grida di farla scendere subito dalla macchina. Scott, ancor più spaventato, lascia il volante e tenta disperatamente di spegnere le fiamme con le mani. L'auto, intanto, si schianta contro un palo del telegrafo. Al centro ustionati, si appura che oltre il 20% del corpo della donna è ustionato in modo grave. Per sua fortuna, Jeanna sopravvive.
Nel 1976 Michael Harrison ha pubblicato un libro sul fenomeno. Si intitola Pire from Heaven, vi vengono citati dozzine di casi, da dove si evince una delle peculiarità più singolari della combustione spontanea, vale a dire che essa quasi mai si estende oltre il soggetto aggredito dal misterioso fuoco. Il lunedì di Pentecoste del 1725 nella città francese di Reims, Nicole Millet, moglie del proprietario della locanda "Leon d'oro", viene trovata bruciata su una poltrona rimasta intoccata. Il marito viene accusato di omicidio. Ma un giovane chirurgo, il dottor Claude-Nicholas Le Cat, tanto fa da riuscire a convincere la giuria che in realtà la combustione umana spontanea è possibile. Il Millet viene così graziato e il verdetto mutato: la donna era stata "visitata dal fuoco divino". Il caso ispira un ricercatore francese, Jonas Dupont, il quale si ripromette di raccogliere tutta la casistica disponibile su questo inesplicabile fenomeno. Frutto del suo impegno è il volume intitolato De incendiis corporis humani spontaneis, dato alle stampe a Leida nel 1763.
Un altro celeberrimo caso di questo periodo è quello della contessa Cornelia dei Bandi di Cesena, sessantadue anni, ritrovata sul pavimento della camera da letto dalla sua dama di compagnia. Anche in questo caso uno spettacolo orribile: sulle gambe rimaste intatte, c'era la testa mezza bruciacchiata, tutto il resto del corpo era stato divorato dalle fiamme, ridotto in cenere, mentre nell'aria fluttuavano polveri impalpabili. Il letto si era preservato. Le coperte erano discoste, come se la poveretta avesse tentato di correre alla finestra, invano, perché le fiamme l'avevano istantaneamente divorata, lasciandola in piedi, così che la testa le era caduta sul troncone delle gambe, il resto del corpo miseramente distrutto. Al contrario della moglie del taverniere Millet, la contessa Cornelia non amava bere. (Una delle ipotesi più diffuse che in quel momento storico veniva proposta per spiegare la combustione spontanea chiamava in causa la presenza di una ingente quantità di alcol nel corpo del malcapitato).
Nel XIX secolo sono due gli scrittori famosi che ricordano il fenomeno. Il primo è il capitano Marryat, il quale prendendo spunto da un articolo comparso sul «Times» nel 1832, fa morire in tal modo Jacob Faithful, l'eroe del suo omonimo romanzo, ridotto nel letto a «un mucchietto maleodorante di cenere». Vent'anni dopo, nel 1852, è la volta di Charles Dickens in Casa desolata far morire di combustione spontanea l'odioso ubriacone Krook, ridotto a un cumulo di cenere, come un ciocco da camino consumato. G.H. Lewes, l'amante di George Eliot, prendendo proprio spunto dal romanzo di Dickens dichiara che la combustione spontanea non esiste. Di rimando, Dickens nella sua prefazione al romanzo lo contraddice, citando la bellezza di trenta casi comparsi sui giornali. Ciò malgrado, alla fine del pezzo sul personaggio di Krook nella sua Enciclopedia dickensiana (1924), l'autore Arthur L. Hayward afferma in modo dogmatico: «L'eventualità del fenomeno delle combustione umana spontanea è stata finalmente e per sempre rinnegata». Peccato che Hayward non precisi in virtù di quale esperimento sia approdato a una tale certezza.
Il libro di Harrison, un interessante insieme di risultati di varie ricerche, non lascia adito a dubbi in merito alla realtà del fenomeno della combustione umana spontanea. Ma che cosa la provoca? Molto correttamente, egli riconosce l'impossibilità di offrire una risposta logica, tuttavia offre alcuni spunti di considerazione. Harrison cita lo studio di un dottore americano, Mayne R. Coe junior, interessato alla telecinesi, il potere della mente sulla materia. Lo stesso Coe era capace di far ondeggiare delle sottili strisce di alluminio infilate sulla punta di aghi mettendoci sopra la mano: non ci pare nulla di particolare, visto che si tratta senza dubbio di una qualche forma di energia fisica magnetica. Poi, con l'intento di sviluppare la sua bioelettricità, Coe era passato allo yoga. Un giorno, mentre se ne stava tranquillamente seduto in poltrona, era stato percorso da una forte scossa elettrica che, partendo dalla testa, gli aveva attraversato tutto il corpo scaricandosi dai piedi, per sua fortuna una corrente a alto voltaggio ma a bassa intensità. Si era reso conto di possedere un notevole potenziale. Appesa al soffitto tramite un cordino una scatola di cartone leggero, se la stanza in cui sperimentava era asciutta e secca, si era reso conto di poterla fare ondeggiare lievemente operando a distanza, semplicemente volendolo. Nel corso di un altro esperimento si era "caricato" con una corrente continua a 35.000 volt, scoprendo che, in quelle condizioni, gli riusciva di far muovere la scatola allo stesso modo. Tutto questo, per dimostrare che durante i suoi esercizi mentali produceva una corrente elettrica ad alto voltaggio. In un'altra occasione, mentre si trovava in volo a più di 6000 metri, con l'aria estremamente secca, dopo essersi fatto "caricare" con 35.000 volt in corrente continua, dal suo corpo si erano sprigionate delle scintille. Secondo Coe, questo poteva spiegare il fenomeno della levitazione - quando lo yogi in stato meditativo si solleva nell'aria - dove il corpo umano che rappresenta la carica positiva viene respinto dalla superficie terrestre a carica negativa.
Harrison menziona altri casi di uomini che si comportano come vere e proprie "batterie" viventi, persone "calamità" (sovente si tratta di bambini) capaci di sviluppare una carica elettrica incredibile. Nel 1877 si ricorda il caso di Caroline Giare di Londra, nella regione dell'Ontano, vera calamità umana in grado di attirare gli oggetti metallici e dare una scossa per nulla leggera fino a venti persone in catena fra loro tenendosi per mano. All'epoca dei misteriosi fenomeni, la giovane soffriva di turbe adolescenziali. Frank McKinistry, di Joplin nel Missouri, in alcuni momenti esercitava una forza magnetica così potente da non essere in grado di staccare i piedi da terra. Restava impalato sul posto, come inchiodato. Al 1895 risale invece il caso della quattordicenne Jennie Morgan di Sedalia, Missouri, in grado di generare un potenziale elettrico così forte da mettere al tappeto un uomo di grande corporatura. Sovente, quando toccava o anche solo sfiorava degli oggetti metallici, dai polpastrelli si sprigionavano delle vere e proprie scariche con tanto di scintille. In questo contesto, vale ricordare che molti adolescenti al centro di fenomeni di poltergeist associano a queste manifestazioni anche la capacità di sviluppare potenzialità magnetiche ed elettriche. Le cronache francesi del 1846 riportano il caso di una ragazza di nome Angélique Cottin divenuta una vera batteria elettrica umana. C'erano volte in cui gli oggetti da lei toccati schizzavano via violentemente e una volta un pesante telaio di legno di quercia si era messo a "ballare" non appena Angélique si era avvicinata. Invece Esther Cox, di Amherst, nella Nuova Scozia, ritenuta il "fuoco" attorno al quale si manifestavano strani fenomeni paranormali, possedeva un tale magnetismo da attirare posate e coltelli anche da notevole distanza. Sembra si presentino due tipi di cariche, negativa e positiva.
Secondo il dottor Coe, ogni cellula dei muscoli dell'uomo è assimilabile a una piccola batteria e un solo centimetro cubico può sviluppare non meno di 400.000 volt. (Il geniale inventore Nikola Tesla era solito dimostrare che il corpo umano è in grado di raccogliere un immenso potenziale di cariche elettriche - sufficiente a innescare la luminosità di una lampada al neon - a condizione, ovviamente, che l'intensità della corrente sia bassissima).
Ma anche questo non sembra fornire una spiegazione plausibile per la combustione umana spontanea, anche perché il punto cruciale delle dimostrazioni di Tesla consiste nel fatto che tutto questo accade senza sprigionamento fiamma. Ciò che la innesca è l'intensità. (Provate, con le giuste cautele, a collegare fra loro con un cavo normale due batterie d'auto a 12 volt; in un attimo il filo si fonde e se vi procurate un cavo a sezione maggiore lo sentirete ber presto caldo). Questo spiegherebbe come mai tutto ciò che sta attorno a una povera vittima di combustione spontanea non risulta danneggiato, semplicemente perché non trattandosi di conduttori non si verifica un passaggio di corrente.
Il fenomeno della combustione spontanea sembra non fare differenza fra le vittime, che possono essere sia persone anziane che giovani. Il 27 agosto 1938, a Chelmsford, Essex, mentre stava danzando con grande energia, la ventiduenne Phyllis Newcombe aveva incominciato molto stranamente a brillare di una luminosità azzurrognola e dopo un attimo si era trasformata in una torcia umana, morendo in pochi minuti. Nell'ottobre dello stesso anno, una ragazza di nome Maybelle Andrews, mentre stava allegramente danzando in un night di Soho con il suo ragazzo, Billy Clifford, si era incendiata spontaneamente, con le fiamme che si erano sprigionate dalla schiena, dal petto e dalle spalle. Il ragazzo, seriamente ustionatosi nel tentativo di aiutarla, testimoniò che in quella sala non c'era alcuna fiamma libera e che il rogo si era scatenato fuoriuscendo dal corpo della povera Maybelle. Mentre la stavano portando al pronto soccorso la giovane era morta. In casi come questi è evidente che la frenetica attività danzante sembrerebbe essere la causa scatenante del misterioso fenomeno, innescando elettricità di natura statica. Michael Harrison, in proposito, sottolinea come la "danza rituale" a cui ricorrono le tribù primitive serva appunto per riscaldare l'atmosfera e far crescere la tensione. A suo parere è proprio ciò che succede in questi casi.
Sempre Harrison mette in evidenza una curiosità legata a collegamenti geografici. Il 13 marzo 1966 tre uomini morirono contemporaneamente di combustione spontanea. John Greeley, il timoniere della nave Ulrich, venne ridotto in cenere a pochi chilometri a ovest di Fiùsterre; a Upton-by-Chester, il camionista George Turner, venne trovato carbonizzato vicino a una ruota del suo camion, che era scivolato in un fosso; a Nimega, in Olanda, il diciottenne Willem ten Bruik era morto arso vivo accanto alla sua macchina. Come accade in questi casi, tutto ciò che stava attorno vittime non aveva riportato alcuna bruciatura. Harrison osserva che al momento della loro misteriosa morte i tre malcapitati si trovavano ai vertici di un triangolo equilatero, dal lato lungo circa 550 km. Come poter escludere che la superficie terrestre non emetta essa stessa delle scariche di energia elettrica, secondo uno sconosciuto schema triangolare?
Un altro ricercatore, Larry Arnold, ha espresso le sue ipotesi nel numero di gennaio del 1982 della rivista «Frontieriof Science». Si tratta della teoria detta delle ley lines, correnti di energia tellurica che solcano la superficie terrestre. Alfred Watkins, l'uomo a cui si deve la scoperta di queste linee, fa notare come proprio lungo queste linee ricorrano moltissimi punti brent, un vocabolo che nell'antico inglese significa "linciato". Altri "cacciatori di ley lines" suggeriscono che i grandi cerchi megalitici di pietre starebbero proprio a ridosso di nodi ley cruciali, nei punti in cui più linee telluriche energetiche si incrociano. Viene spontaneo, a questo punto, notare come quasi sempre ai cerchi di pietre si associ la tradizione della danza: pensiamo a Merry Maidens in Cornovaglia oppure alla stessa Stonelenge, popolarmente nota col nome di "Danza dei giganti". Storici e studiosi affermano che questi luoghi erano dedicati alle danze sacre proprio perché i danzatori, trovandosi a ridosso delle linee di forza, potessero caricarsi di energia tellurica. A Larry Arnold dobbiamo la redazione di almeno una dozzina di interessanti mappe di leys in Inghilterra, molti ti quali associati con misteri collegabili al fuoco. Secondo Arnold esiste una "linea di fuoco" (così ama chiamarla) lunga circa 650 km che tocca cinque città dove si verificarono ben dieci casi di misteriosi fuochi. Ma non basta. Sempre in queste zone si sarebbero verificati eventi di combustione spontanea, con una frequenza per lo meno sospetta. A corroborare la sua tesi cita quattro casi di combustione umana spontanea verificatisi fra il 1852 e il 1908. Harrison è convinto che il misterioso fenomeno della combustione umana sia da ricondursi a una bizzarria della mente. Una sorta di corto circuito, in cui la mente in qualche modo influenza il corpo, inducendolo a cariarsi di un potenziale elettrico assolutamente anomalo. La risposta potrebbe trovarsi in ciascuna di queste due ipotesi, oppure, come sostiene qualcuno, in una combinazione di ambedue.
 
 
TRIANGOLO DELLE BERMUDA
Il 5 dicembre del 1945 cinque Avengers, aerei bombardieri, si alzavano in volo dalla base di Fort Lauderdale, in Florida, per un normale giro di perlustrazione e controllo sull'Atlantico. La flotta 19 era comandata dal responsabile Charles Taylor. Gli altri quattro piloti erano reclute in allenamento.
Si accingevano a compiere quello che in gergo è detto "volo di routine", ossia un'attività del tutto sicura, utile soprattutto a far maturare qualche ora di volo in più senza istruttore al fianco.
Attorno alle 2,15 gli aerei si trovavano già in pieno oceano, seguendo la rotta standard, il tempo era caldo e il cielo limpido.
Alle 3,45 la torre di controllo riceve un messaggio da Taylor: «Siamo in emergenza.
Crediamo di esserci persi. Non si vede più terra... ripeto... non riusciamo più a scorgere la terra».
«Qual’ è la vostra posizione?»
«Non siamo certi della posizione. Non sappiamo dove ci troviamo. Ripeto, ci siamo persi».
«Puntate verso ovest», suggeriscono dalla torre.
«Non sappiamo quale sia la direzione ovest. Tutto sembra fuori posto... strano. Non siamo più sicuri di niente. Persino l'oceano non sembra quello che dovrebbe essere».
Alla torre di controllo cresce lo sconcerto. Quand'anche una tempesta magnetica avesse messo fuori uso gli strumenti, i piloti avrebbero comunque potuto orientarsi osservando il Sole basso nel cielo a occidente. A questo punto il contatto radio peggiora e i messaggi si riducono a brevi frasi. Tra gli altri, si registra la conversazione spasmodica fra due piloti. Uno grida che tutta la sua strumentazione di bordo è andata in tilt. Alle 4 in punto Taylor decide di passare il comando a un altro pilota. Ma anche lui alle 4,25 dichiara: «Non sappiamo dove ci troviamo».
La situazione, frattanto, si fa drammatica. Se gli aerei non dovessero rientrare o toccare terra entro le successive quattro ore, la mancanza di carburante li costringerebbe ad ammarare. Alle 6,27 parte una missione di soccorso. In volo si alza un gigantesco Martin Mariner, con a bordo un equipaggio di tredici persone. L'aereo si mette sulle tracce degli Avengers, seguendo l'ultima rotta segnalata. Dopo ventitré minuti il cielo verso oriente viene improvvisamente illuminato da un lampo color arancio brillante. Da quel momento dei velivoli, Mariner compreso, non si ha più alcuna notizia. Sono come svaniti nel nulla. Proprio come è accaduto a navi e altri aerei in quella stessa area, poi tristemente nota come "Triangolo del diavolo" o "Triangolo delle Bermuda". Quello che accadde agli aerei scomparsi non riteniamo sia un mistero. Nel corso del pomeriggio il tempo si era fatto brutto e le navi in mare avevano segnalato «forti venti e mare in tempesta». La squadriglia 19 e il Mariner, finito il carburante, erano stati costretti a scendere in mare inabissandosi. Il vero mistero, dunque, era un altro: perché era accaduto? Perché i piloti avevano perso la tramontana e ogni elementare senso di orientamento? Anche se la strumentazione di bordo aveva smesso di funzionare e anche se la visibilità era scesa a poche decine di metri, persino un pilota alle prime armi si sarebbe portato al di sopra dello strato di nubi procedendo con piena tranquillità. Ma ciò che suona ancora più strano è il fatto che un simile evento avrebbe dovuto mettere sul chi vive le autorità militari, avvertendo che qualcosa di veramente pericoloso incombeva su quella striscia di mare fra la Florida e le Bahamas, una folta catena di isole a poco meno di 100 km dalla costa. Invece non avvenne nulla, non squillò nessun campanello d'allarme. Venne proposta la solita soluzione: l'incidente era stato provocato dalla somma di alcuni elementi negativi: cattivo tempo, interferenze elettriche nelle bussole di riferimento, inesperienza dei piloti, il fatto che il loro comandante, Charles Taylor, era stato soltanto da poco assegnato alla base e non conosceva i luoghi. Spiegazioni analoghe saranno poi utilizzate nei vent'anni a venire per spiegare alcune tragedie simili: la scomparsa nel 1947 di una superfortezza volante, quella di un Tudor IV nel gennaio del 1948, di un DC3 nel dicembre dello stesso anno, un altro Tudor IV nei 1949, un Globeinaster nel 1950, uno York inglese da trasporto nel 1952, un Super Constellation della Marina nel 1954, un altro Martin nel 1956, un aereo cisterna dell'Air Force nel 1962, due Stratotankers nel 1963, un magazzino volante nel 1965, un cargo civile nel 1966, un altro cargo nel 1967 e un altro ancora nel 1973... per un numero di dispersi superiore alle 200 unità. Cosa abbastanza singolare, il primo a rendersi conto della straordinarietà di tutti questi fatti messi insieme non fu un militare, ma un giornalista, Vincent Gaddis. Nel febbraio del 1964 il suo articolo intitolato “Morte nel Triangolo delle Bermuda” compare sulle pagine della rivista «Argosy», battezzando il mistero col nome che oggi è a tutti ben noto. Un anno dopo, in un libro completamente dedicato al problema, dal titolo “Triangolo maledetto e altri misteri del mare”, Gaddis riprende il pezzo inserendolo nel capitolo “Il Triangolo della morte”. Viene elencato un gran numero di navi che sono scomparse in questa fascia di oceano, a partire dalla Rosalie, svanita nel nulla nel 1840, per arrivare allo yacht Connemara IV nel 1956. Nella chiusa del capitolo, Gaddis entra a pie pari nel regno della fantascienza e si butta sulla speculazione di un «continuom spazio-temporale che avvolge il nostro mondo, compenetrandolo completamente», suggerendo che forse le navi e gli aerei sono spariti penetrando in una sorta di buco cosmico che introduce alla quarta dimensione. Qualche tempo dopo la pubblicazione del libro, Gaddis riceve una lettera da parte di un certo Gerald Hawkes, il quale gli racconta una sua esperienza nel Triangolo delle Bermuda consumatasi nell'aprile del 1952. Durante un volo dall'aeroporto attuale Kennedy, a Gran Bermuda, all'improvviso l'aereo era precipitato per oltre 60 m. Non si era trattato di un vuoto d'aria, bensì l'impressione era stata quella di scendere come a bordo di un ascensore. Poi il piccolo aereo aveva ripreso quota. «Era stato come se un gigante si fosse divertito ad afferrare l'aereo e a farlo scendere e salire come un giocattolo” mentre le ali sembravano sbattere, proprio come quelle di un uccello. Il capitano, visibilmente sconcertato, aveva rivelato ai passeggeri di non riuscire più a scorgere Gran Bermuda e che l'operatore radio stava da qualche momento tentando inutilmente di mettersi in contatto sia con la Florida che con Gran Bermuda. Finalmente, dopo un'ora, il velivolo era entrato in comunicazione con una nave che, fungendo da punto di riferimento, l'aveva guidato fino a destinazione. Scesi dall'aereo, tutti avevano potuto notare la limpidezza del cielo notturno, una splendida serata senza vento. La lettera di Hawkes finiva con una osservazione affascinante: «Forse l'aereo era stato inghiottito in un luogo dove tempo e spazio non esistevano». Ora, sappiamo tutti che l'ingresso di un aereo in un vuoto d'aria, con un repentino mutamento delle condizioni della pressione, può provocare una improvvisa precipitazione per mancanza di sostegno e che violente turbolenze d'aria inducono nelle ali fenomeni vibrazionali così forti da dare l'impressione che sbattano come quelle di un uccello; ma ciò che in questo caso più di ogni altro fatto resta un mistero è il totale blackout radio. E’ la stessa singolare anomalia che stupisce coloro che si avvicinano allo studio degli UFO, i cosiddetti dischi volanti, a proposito dei quali sono state proposte infinite ipotesi sin dal loro apparire, vale a dire da quando nel giugno del 1947 il pilota civile Kenneth Arnold affermò di aver osservato nove '"piatti volanti" mentre si trovava in quota sul Monte Rainier, nello stato di Washington. Alcuni ufologi sostengono che la superficie della Terra non è uniforme come pare, bensì punteggiata da strani "vortici", mulinelli energetici, dove gravità e magnetismo planetario sono inspiegabilmente meno consistenti. Si tratterebbe, in definitiva, di una specie di finestre, punti di luoghi particolari del pianeta, che ipotetici extraterrestri potrebbero sfruttare come zone di prelievo per esemplari di esseri umani destinati allo studio sistematico sul loro lontano pianeta di provenienza... Per Ivan T. Sanderson, amico di Gaddis e noto studioso di fenomeni stravaganti, questa ipotesi è davvero un po' troppo spinta nel regno della fantasia. Da buon scienziato rigoroso, Sanderson ha affrontato il problema disegnando una cartina del mondo su cui evidenziare le aree teatro di scomparse inspiegabili. Ha così scoperto, per esempio, l'esistenza di un altro "Triangolo del diavolo" a sud dell'isola giapponese di Honshu, dove navi e aerei spariscono con regolarità. Dall'altro capo del mondo, un giornalista locale lo ha informato in merito a una strana esperienza personale da lui vissuta durante un volo verso Guani, nell'oceano Pacifico. Con il suo vecchio aereo da diporto era riuscito a coprire in un'ora e in totale assenza di venti un numero di chilometri pari quasi al doppio di quelli consentiti mediamente e, guarda caso, stava proprio sorvolando un'area "pericolosa" nella quale da anni si registravano sparizioni improvvise. Riportando queste zone critiche sulla carta del mondo, Sanderson si è accorto che presentano una superficie a losanga e che queste losanghe sembrano abbracciare il pianeta secondo una configurazione chiara, disposta su due strisce ad anello, rispettivamente collocate a 30° nord e 40° sud rispetto alla linea equatoriale. In questa fascia Sanderson ha contato almeno 72 zone singolari. Il vulcanologo George Rome sostiene che i fenomeni tellurici scaturiscono tutti a un preciso livello al di sotto della crosta terrestre, mentre la direzione e il verso della loro attività sarebbe determinata da movimenti di rotazione registrati attorno al nucleo centrale del pianeta. Ebbene, la collocazione grafica di questi nuclei sismici operata da Rouse, corrisponde in modo pressoché perfetto alle losanghe individuate da Sanderson. Forte di questa annotazione e come sempre animato da uno spirito indagatore prettamente scientifico, Sanderson è così giunto alla conclusione che giustificare le enigmatiche sparizioni con ipotesi fantasiose non funziona, nel momento in cui le discontinuità della superficie terrestre messe in risalto dalla ricerca sua e da quella di Rouse - i mulinelli energetici di cui si è detto - potrebbero benissimo costituire una causa prima scientificamente accettabile. La teoria proposta da Sanderson è comparsa in un suo libro del 1970 intitolalo “UFO: visitatori dal cosmo”. Tre anni dopo è toccato alla giornalista Adi-Kent Thomas Jeffrey raccogliere in un lungo elenco, pubblicato da una piccola casa editrice della Pennsylvania, tutta la casistica collegata al Triangolo delle Bermuda. Ma, purtroppo per lei, la giovane cronista non ha avuto fortuna nella scelta del tempo, poiché pochi mesi dopo usciva il grande successo di un altro noto autore. Parliamo di Charles Berlitz, pronipote del fondatore della celeberrima scuola di lingue, il quale pubblicava per i tipi di una grande casa editrice come la Doubleday, un rapporto dettagliato e al tempo stesso avvincente di ciò che era accaduto e stava accadendo nel famigerato Triangolo della morte. Il successo fu pieno e completo e in un attimo il libro era balzato in vetta a tutte le classifiche di vendita. Erano passati vent'anni dalla scomparsa della squadriglia 19 e dieci da quando Vincent Gaddis aveva inventato la formula "Triangolo delle Bermuda". Berlitz è stato però il primo autore a riuscire ad imporre il fenomeno all'attenzione del mondo. Uno dei molteplici motivi del successo lo si deve al fatto che Berlitz non ha esitato a lanciarsi in speculazioni fantasiose che hanno come protagonisti alieni, vuoti temporali, UFO, carri degli dèi e altro ancora. Fra le ipotesi più straordinarie, Berlitz mette in pista anche quella legata al pioniere della ufologia, il professor Morris K. Jessup, morto in circostanze per lo meno misteriose, dopo aver approfondito troppo un argomento tabù, conosciuto agli addetti al lavori come "Esperimento Filadelfia". Si tratta di un esperimento scientifico che si mormora abbia avuto luogo nel 1943 a Filadelfia, nel corso di alcuni test attivati dalla Marina militare americana al fine di mettere a punto un dispositivo in grado di circondare una nave con un potente campo magnetico. Stando ai testimoni sentiti da Jessup, ad un certo momento una strana luce verdastra aveva investito la nave, i cui contorni si erano fatti via via incerti e tremolanti, poi la grande massa era sparita, ma solo per ricomparire nel porto di Norfolk, in Virginia, a oltre 450 km di distanza. Molti componenti l'equipaggio morirono; altri impazzirono. Stando a quanto affermava Jessup, non appena si era gettato anima e corpo in questa ricerca, era stato contattato da agenti della Marina militare, i quali gli avevano proposto di investigare con loro su progetti analoghi, ma lui aveva rifiutato. Nel 1959 Morris venne trovato morto nell'abitacolo della sua automobile, ucciso dai gas di scarico. Secondo Berlitz, il professore era stato indulto al silenzio, per non correre il rischio che spifferasse tutto ciò che già era venuto a conoscere sull'Esperimento Filadelfia. Ma, vi chiederete, che cosa c'entra tutto questo con il tema del Triangolo delle Bermude? Semplice: nell'esperimento si tentava di realizzare un vortice magnetico del tutto simile a quelli ipotizzati da Sanderson, un mulinello in grado di far compiere all'oggetto (in questo caso una nave) un salto spazio-temporale e tele trasportarlo a centinaia di chilometri di distanza. In modo alquanto strano, questa immaginazione teorica ebbe il potere di mandare gli scettici su tutte le furie. Come in un'esplosione improvvisa, incominciarono a uscire libri, articoli e programmi televisivi animati dall'unico scopo di smontare il caso Bermuda. In tutti, la strategia adottata era quella del buon senso comune, quella stessa messa in atto sin dal 1945 dalle autorità militari e politiche: le sparizioni misteriose erano dovute, molto semplicemente, a cause naturali e, in modo particolare, a tempeste improvvise. Di certo non si può negare che per alcuni eventi questa sia davvero la soluzione migliore; ma se solo ci prendiamo la briga di dare una scorsa agli elenchi di navi e aerei spariti nel nulla, considerando che nella maggior parte dei casi non si è ritrovato il corpo delle vittime e neppure un rottame, ebbene, a questo punto, mettersi in sospetto è il minimo che una mente razionale deve fare. Ci chiediamo: ma non esiste un'ipotesi capace di conciliare il necessario buon senso comune con qualche guizzo intuitivo in grado di rendere ragione di tutta questa allarmante fenomenologia? Chi potrebbe aiutarci meglio di coloro che, chissà come e perché, sono riusciti a sfuggire alla maledizione del Triangolo? Proviamo. Nel novembre del 1964 il pilota di un volo charter, Chuck Wakely, stava facendo ritorno da Nassau a Miami, in Florida, volando a una quota di circa 2500 m. Ad un tratto aveva notato un globo luminoso danzare attorno alle ali, ma non ci aveva fatto caso, ritenendolo un abbaglio. Di colpo, il globo si era fatto sempre più grosso e la sua ingombrante presenza aveva mandato in tilt l'apparecchiatura automatica di bordo, tanto da costringerlo a ricorrere ai comandi manuali. Poi il globo era diventato così brillante da abbagliarlo. Per fortuna, la luminosità si era quasi subito affievolita e la funzionalità degli strumenti di pilotaggio si era riattivata. In un chiaro pomeriggio del 1966 il capitano Don Henry stava tranquillamente guidando il suo rimorchiatore da Puerto Rico a Fort Lauderdale, quando era stato chiamato sul ponte dalla voce concitata di un marinaio. La bussola di bordo era come impazzita e ruotava al contrario. D'un tratto era scesa una strana penombra e l'orizzonte era scomparso. «Sembrava che l'acqua fosse ovunque, in tutte le direzioni». La corrente elettrica era venuta meno, anche se il generatore aveva continuato a funzionare. Quello di emergenza era bloccato. Il rimorchiatore venne inghiottito da una coltre di nebbia, spessa e scura. Dopo qualche momento di terrore, i motori avevano ripreso da soli a funzionare e l'imbarcazione si era ritrovata miracolosamente fuori da quella atmosfera irreale e minacciosa. La spessa nebbia era concentrata in un unico banco, dove anche il mare era più agitato. Tutto attorno a questa "isola'' il clima era buono e le acque calmissime. Per quel che ne sapeva, il capitano Henry testimoniò che la bussola impazzita si comportava come quando gli capitava di risalire il fiume San Lorenzo a Kingston, dove i massicci depositi ferrosi alteravano completamente il comportamento dell'ago magnetico. Come sappiamo, il nostro pianeta (anche se nessuno è in grado di dire perché) è un gigantesco magnete, con le linee di forza che lo percorrono secondo traiettorie imprevedibili ma certe. Sono queste le vie che uccelli e animali percorrono quando l'istinto li spinge a '"tornare a casa"; sono sempre queste le energie che sollecitano la bacchetta del rabdomante a flettersi e vibrare. Ma esistono luoghi sulla Terra dove anche gli uccelli migratori sono sconcertati e perdono l'orientamento, perché succede qualcosa di anomalo, come, per esempio, la creazione dei misteriosi mulinelli o vortici energetici magnetici di cui si è detto. Nel 1930 in un trafiletto comparso sul «Marine Observer» si segnalava la presenza di una forte alterazione magnetica nei pressi del vulcano Tambura, a Sumbawa, a causa della quale le bussole di bordo impazzivano impedendo ai naviganti di seguire le rotte prestabilite. Nel 1932 il capitano Scutt della Australia, nelle vicinanze di Freemantle, ebbe modo di constatare uno sconvolgimento magnetico tanto forte da alterare di 12° la linea di rotta della nave. Ma il collezionista principe di queste notizie è il ricercatore William Corliss, autore di due libri interessanti. Dobbiamo proprio a Corliss lo spunto per la ricerca che ci ha condotto al caso del dottor Laurier di Ottawa, il quale mentre nel 1974 stava monitorando gli spostamenti delle grandi banchise ghiacciate del nord del Canada, si era imbattuto in una zona di anomalia magnetica lunga la bellezza di 60 km, fenomeno che egli valutò scaturire da qualche misteriosa energia posta circa 25 km sotto la superficie. Secondo Laurier questo genere di eventi nasce dallo scontro sotto la crosta di placche tettoniche che collidono: quelle stesse manifestazioni geologiche che provocano i terremoti. Il nodo centrale che emerge da tutto quanto si è fin qui detto, è che in realtà il nostro pianeta non si comporta affatto come una normale calamità, caratterizzata da un campo simmetrico e preciso, ma la sua superficie è come costellala da "buchi", vuoti e anomalie. Come già si è detto, gli scienziati non hanno ancora capito come mai la Terra possegga un campo magnetico, anche se è prevalente l'ipotesi che ciò sia dovuto al suo nucleo centrale magmatico ferroso. Questo continuo movimento produce scivolamenti e slittamenti nel campo magnetico planetario e fenomeni di esplosione di attività magnetica, in tutto comparabile a quella, ben più gigantesca, tipica del Sole. Se queste attività sono in qualche modo da collegarsi alle zone di tensione della crosta terrestre e quindi ai terremoti, diventa plausibile immaginare abbiano collocazioni preferenziali, proprio come accade per le aree sismiche. Ma quali effetti potrebbe generare un "terremoto" di improvvisa attività magnetica? Per esempio, un comportamento anomalo della bussola; perché sarebbe come se dal centro della Terra risalisse una meteora dal potente nucleo magnetico. Turbolenze violente sulle acque del mare, perché agirebbero le stesse forze di perturbazione tipiche delle maree lunari, solo che, in questo caso, il fenomeno sarebbe del tutto irregolare, sopraggiungendo da ogni direzione. Nel vortice magnetico venutosi a creare, nuvolaglia e nebbia tenderebbero a concentrarsi, dando origine a un banco spesso e fitto, impenetrabile. Le strumentazioni elettroniche verrebbero certamente messe in crisi, se non completamente fuori uso... Questa grande quantità di dati e considerazioni spiega perché le cosiddette ipotesi semplicistiche - quelle che invocano cause naturali e etichettano il caso Bermuda come mera invenzione giornalistica - non siano soltanto superficiali, ma deleterie. Esse, infatti, scoraggiano ulteriori indagini su quello che potrebbe essere uno dei più affascinanti rebus scientifici del nostro tempo. Con i tanti satelliti artificiali che gravitano tutt'attorno alla Terra, solo volendo, oggi saremmo in grado di osservare le esplosioni di attività magnetica con la stessa puntuale precisione con cui vengono segnalati terremoti e movimenti della superficie. Potremmo valutarne intensità e frequenza al punto da poterle prevedere. Il risultato non sarebbe solo quello di dare soluzione a un pur grande mistero, ma anche di evitare che in futuro si verifichino tante altre tragedie come quella della sparizione della squadriglia 19.
 
 
 
GIOVANNA D'ARCO
Giovanna d'Arco ha fatto ritorno dall'aldilà?
Il 30 maggio del 1431 Giovanna d'Arco veniva messa al rogo dagli Inglesi con l'accusa di eresia. Lei stessa si considerava un messaggero celeste, inviato dal cielo per aiutare i Francesi a sconfiggere il nemico inglese (alleato dei Borgognoni che alla fine la catturarono). All'età di tredici anni Giovanna aveva incominciato a sentire delle voci, poi riconosciute come quelle dei santi Gabriele, Michele, Margherita e Caterina.
Quando la notizia che la città di Orléans era assediata dagli Inglesi era giunta a Domremy, il piccolo villaggio della Lorena dove viveva, Giovanna aveva sentito le solite voci esortarla ad
andare a togliere l'assedio, trasformandosi in un condottiero.
La sua carriera militare fu breve, ma a dir poco sfolgorante: in un solo anno riportò numerose vittorie e poté assistere all'incoronazione di Carlo VII a Reims. Poi era stata catturata dai Borgognoni al soldo degli Inglesi e venduta per diecimila franchi, processata, riconosciuta come strega e condannata a essere bruciata viva.
Fin qui la storia ufficiale; in realtà quella meno nota non sembra fermarsi qui. Scrive Anatole France: «Orbene, neppure un mese dopo che Parigi era tornata a Carlo, in Lorena era comparsa una certa pulzella. Aveva venticinque anni e il suo nome era Claude. Un giorno si era presentata ai reggenti di Metz dicendo di essere Giovanna». Questo accadeva nel maggio del 1436, esattamente cinque anni dopo l'atroce fine di Giovanna.
La prima cosa che viene in mente è immaginare un impostore che si spaccia per la vera pulzella; ma alcuni importanti elementi inducono a pensarla in modo diverso. I due fratelli più giovani di Giovanna d'Arco, Petit-Jean e Pierre, erano sotto le armi quando era accaduto il fatto e non avevano alcun dubbio che la giovane arsa viva a Rouen fosse la sorella. Così, quando avevano saputo che a Metz era apparsa una giovane che diceva di essere Giovanna e che chiedeva di incontrarli, vi si erano precipitati; fra l'altro Petit-Jean era vicino, essendo prevosto di Vaucouleurs. Una cronaca racconta che i due ragazzi giunsero al villaggio di La-Grange-aux-Ormes mentre si stava svolgendo un torneo. Fra i tanti cavalieri, quello che aveva dato dimostrazione di essere il più abile, era in realtà quella ragazza che li aveva fatti chiamare e che diceva di essere Giovanna. Certi di un inganno, i due si erano predisposti a sfidarla in duello. Però quando Petit-Jean le aveva domandato chi era, la presunta millantatrice aveva sollevato la visiera dell'elmo e, mostrato il volto, aveva concesso loro di riconoscerla: era proprio la sorella Giovanna.
E in effetti Giovanna era accompagnata da molte persone che già l'avevano conosciuta nel formidabile anno in cui si era opposta agli Inglesi. Fra questa gente c'era Nicole Lowe, ciambellano del re. Era evidente che se si fosse trattato di un inganno sarebbe stato assurdo presentarsi in un posto dove tutti l'avrebbero riconosciuta. (Giovanni di Metz era stato, tra l'altro, uno dei suoi più ferventi estimatori). Il giorno dopo i fratelli l'avevano presa con loro e si erano ritirati a Vaucouleurs, dove avevano trascorso una settimana insieme. La ragazza era stata riconosciuta con piacere da tutti coloro che solo sette anni prima l'avevano vista recarsi dal maggiorente del luogo Robert de Baudricourt per chiedergli di aiutarla a incontrare il delfino, l'erede al trono. Poi aveva trascorso tre settimane in una piccola città di nome Marville, quindi aveva compiuto un pellegrinaggio alla Vergine Nera di Notre Dame de Lance, fra Laon e Reims. Quindi era andata a vivere ospite di Elisabetta, duchessa di Lussemburgo, ad Arlon. Nel frattempo il fratello Petit-Jean si era fatto ricevere dal re per annunciargli che Giovanna era viva. La reazione del sovrano non ci è nota, si sa soltanto che diede ordine al suo tesoriere di consegnare al giovane cento franchi. Una nota nei registri dei pagamenti segnala che il 9 agosto 1436 il consiglio aveva autorizzato il pagamento di un corriere che aveva consegnato alcune lettere inviate da "Giovanna la pulzella".
Il ricordo di questi avvenimenti si trova nel testo fondamentale sulla biografia di Giovanna d'Arco dal titolo Processo e riabilitazione di Giovanna d'Arco, opera in cinque volumi a firma di Jules Quicherat, edita nel 1841, dove sono riprodotti documenti originali. In uno si afferma che il 24 giugno 1437 i miracolosi poteri di Giovanna erano tornati. All'epoca, la ragazza era divenuta la protetta del conte Ulrico di Wuttemberg, che l'aveva condotta con sé a Colonia. Qui Giovanna era rimasta coinvolta in una violenta diatriba scoppiata fra due prelati rivali, uno favorevole al capitolo l'altro al papa. Ulrico era schierato con un certo Udalrico e Giovanna era della stessa opinione. Ma la scelta non era stata la migliore. Il Concilio di Basilea, infatti, aveva riconosciuto in Udalrico un usurpatore e la reggenza della diocesi era stata assegnata dal papa al suo avversario. A questo punto l'inquisitore generale di Colonia aveva voluto interessarsi in merito alla misteriosa ospite del conte (non dimentichiamoci che siamo in piena epoca di "caccia alle streghe") e si era fortemente scandalizzato nel sentir dire che la ragazza era dedita a pratiche magiche, che non si vergognava a danzare con gli uomini e che mangiava e beveva liberamente, più di quanto le fosse necessario. (L'accusa di magia sembra sia stata preconfezionata, raccattando e mettendo insieme i pezzi di una tovaglietta e i frammenti di uno specchio che Giovanna un giorno aveva frantumato scagliandolo contro un muro). L'inquisitore l'aveva allora convocata presso di lui, ma Giovanna si era rifiutata di presentarsi. Quando gli inviati si erano recati dal duca per prelevarla, il signorotto l'aveva nascosta e poi l'aveva fatta allontanare dalla città. L'inquisitore l'aveva scomunicata in contumacia. Tornata ad Arlon, alla corte della duchessa di Lussemburgo, Giovanna aveva conosciuto un gentiluomo, un certo Robert des Armoires, che aveva deciso di sposare, certamente fra la grande delusione dei suoi seguaci. (Era ben noto infatti che la Giovanna di un tempo aveva fatto voto di castità, giurando solennemente sotto un "albero magico" che si trovava nei pressi della sua Domremy). Così si era spostata a Metz, dove Robert possedeva una casa e nei successivi tre anni aveva messo al mondo due figli. Due anni dopo, nell'estate del 1439, si sa che la "signora des Armoires” aveva fatto visita a Orléans, dove i maggiorenti l'avevano accolta con grandi onori e nel corso del banchetto ufficiale le avevano donato 210 livres in segno di gratitudine per tutto ciò che aveva fatto in difesa della loro città ai tempi dell'assedio. Cosa ben singolare, si trattava delle stesse persone che soltanto poco tempo prima avevano pagato tributi alla chiesa locale per celebrare messe commemorative in onore della vergine guerriera. Evidentemente, avevano mutato avviso e avevano accettato la "nuova" Giovanna come autentica. Sia di fatto che, combinazione, la celebrazione delle messe cessò nel 1439. Ma dopo due settimane, stando a una cronaca del tempo, Giovanna aveva lasciato Orléans di gran camera per portarsi a Tours, da dove aveva inviato una missiva al re per il tramite di un maggiorente di Touraine, Guillaume Bellier, che dieci anni prima aveva ospitato la pulzella. Subito dopo Giovanna era andata a Poitou dove sembra prendesse il comando di un luogo chiamato Mans, una donazione probabilmente assegnatale dal re che lei stessa aveva fortemente desiderato venisse incoronato. Poi lo stesso sovrano aveva assegnato il comando a un ex comandante di Giovanna, Gilles de Rais. Un personaggio singolare. Sin da quando aveva combattuto fianco a fianco con Giovanna sotto le mura di Parigi, Gilles aveva incominciato a interessarsi di magia nera - forse nella speranza di poter riassestare delle finanze mai ben stabili a causa dei suoi sperperi - ed era tristemente noto come sadico trucidatore di bambini. Nell'anno successivo, il 1440, Gilles era stato processato e condannato a essere impiccato e bruciato vivo. Nel frattempo - dando per scontato che nel passaggio di consegne per il comando di Mans, Gilles abbia incontrato la signora des Armoires - egli aveva senz'altro dato segno di riconoscere nella "nuova" Giovanna, la stessa donna con cui aveva combattuto e che aveva servito in armi. Era stato lui stesso a porre i suoi uomini sotto il comando della pulzella. Finalmente, nel 1440 Giovanna era andata a Parigi dal re. Per la prima volta aveva ricevuto un parere negativo: il sovrano non era per nulla convinto e l'aveva bollata come un impostore. Una dichiarazione importante, soprattutto se si tiene conto che era stata rilasciata dopo un lungo colloquio. Prima però il re l'aveva sottoposta al medesimo trucco che già aveva messo in atto undici anni prima al tempo del loro incontro iniziale; si era messo da parte e al suo posto sul trono aveva fatto sedere uno dei suoi cortigiani che doveva fingere di essere il re. Ma, di nuovo, come già era successo la prima volta, Giovanna non era caduta nel tranello e andatagli incontro spedita gli si era inginocchiata davanti riconoscendolo subito. Al che, il re aveva esclamato: «Cara la mia pulzella! Siate di nuovo la benvenuta nel nome di Dio». Suona pertanto strano che, subito dopo, lo stesso sovrano la indicasse come un impostore, con tutte le conseguenze che ne derivarono. Infatti, stando a quanto riferisce il «Giornale dei Borghesi di Parigi», la "nuova" Giovanna venne arrestata, processata ed esibita in pubblico come mistificatrice. Messa alla gogna, venne obbligata a riconoscere davanti al popolo di essere un impostore. La sua vera storia, quella che il giornale raccontava, era questa. Nel 1433 la ragazza si era recata in pellegrinaggio a Roma per ottenere il perdono per aver percosso la madre. Spacciandosi per un uomo, era stata ingaggiata come soldato nelle truppe pontificie del santo padre Eugenio. Da qui probabilmente le era nata in testa l'idea di spacciarsi per Giovanna rediviva. Ma questa storia puzza di bruciato e non sembra credibile. Prima di tutto quando Giovanna era tornata a Metz era stata riconosciuta e accettata da tutti come la vera pulzella. In una petizione datata 1443 il fratello Pierre si riferisce in modo esplicito a lei chiamandola "Giovanna, la pulzella, mia sorella”, mentre il cugino, Enrico di Voulton ricorda che sia Petit-Jean che Pierre che la pulzella erano soliti durante le festività presentarsi ai parenti nel villaggio di Sermaise, ben accolti da tutti. Quattordici anni dopo si era anche fatta viva a Saumur e anche qui era stata ufficialmente ricevuta e accolta come la pulzella. Dopo di che era scomparsa dalla vita pubblica, semplicemente perché si era ritirata a vivere a Metz con il marito e la famiglia. Che farcene, dunque, della storia secondo la quale il re l'avrebbe sconfessata, obbligandola a riconoscersi pubblicamente come un impostore? Prima di tutto, l'unica fonte che tramanda questo particolare è il «Giornale dei Borghesi di Parigi». La cosa già di per sé è strana, perché non si capisce come mai se il fatto suscitò tanto clamore altre fonti non ne facessero menzione. Per di più, i "borghesi" erano sempre stati contrari all'operato di Giovanna e non avevano fatto nulla per evitarne la fine. Anatole France afferma invece che quando il popolo di Parigi aveva appreso la notizia del suo ritorno si era schierato a favore della pulzella, manifestando grande giubilo per il suo nuovo ingresso nella capitale. Gli accademici però le erano contrari ed erano stati fra i primi a condividere le accuse di stregoneria che avevano qualche anno prima portato al rogo la prima Giovanna. La sentenza di morte avrebbe potuto essere revocata soltanto da un atto di magnanimità del pontefice, ma questi non aveva mosso un dito, anche se il movimento popolare che ne richiedeva la riabilitazione era stato fortissimo. Dunque, per magistrati, notabili, prelati e accademici, l'inatteso ritorno della pulzella era un evento, diciamo così, alquanto imbarazzante. D'altro canto, anche per quella frangia di prelati e uomini di Chiesa che all'epoca si erano battuti per salvarla (riuscirono a farla riabilitare nel 1452 e finalmente canonizzare nel 1922), pur esultando nel constatare che quella che era stata la loro eroina era sana e salva, in buona salute, il suo ritorno non era del tutto gradito, in quanto ostacolava la loro campagna di patriottismo. E anche il re, nel dichiararla un impostore, doveva essersi trovato stritolato da chissà quante pressioni politiche e religiose. Se l'avesse riconosciuta, il suo placet sarebbe stato definitivo e ufficiale e tutta la Francia avrebbe dovuto accettarla. Troppo rischioso. Al contrario, riconoscerla falsa avrebbe ben presto sedato ogni polemica e tutto, da lì a poco, sarebbe rientrato. Dopo, la donna avrebbe potuto tornarsene a casa e sparire dalla vita pubblica, vale a dire ciò che precisamente avvenne. Anche Anatole France si dichiara convinto che la signora des Armoires era un impostore. Tuttavia c'è da osservare che la sua biografia di Giovanna è costantemente permeata dai toni della sua proverbiale ironia e lascia intendere che la ragazza altro non era che una deludente, rozza campagnola. D'altra parte, l'ipotesi che la "nuova" Giovanna fosse un impostore è alla fine la soluzione più semplice dell'enigma, anche se ci lascia al cospetto di un interrogativo decisivo: come mai, allora, la gente l'aveva riconosciuta e accettata come genuina? Come mai la signora des Armoires era stata considerata senza esitazione sin da subito la vera pulzella? Se riferendoci ai fratelli il ritorno della gloriosa sorella avrebbe potuto favorirli e quindi, al limite, furono loro stessi a sostenere l'eventuale inganno, che dire degli altri parenti, dei conoscenti e degli amici che non ebbero mai dubbi sulla identità della "nuova" Giovanna, riconosciuta come l'eroina della guerra contro gli Inglesi? Da quel che sappiamo, però, la signora des Armoires non spiegò mai a nessuno come fosse riuscita a scampare alla morte sul rogo, ma forse non lo sapeva affatto. L'unica cosa che sapeva dire era che ad un tratto era stata sostituita da un'altra vittima che era morta in sua vece, forse un'altra "strega". Immaginare come lo scambio possa essere avvenuto non è neppure troppo difficile. Si sa che Giovanna possedeva eccezionali doti di convincimento nei confronti del prossimo e che decine di personaggi importanti, a partire da Robert di Baudricourt per arrivare fino al delfino di Francia, conoscendola e ascoltandola avevano fatto in fretta a mutare opinione, rinunciando a crederla una pazza visionaria per accettare l'idea che ricevesse veramente dal cielo le voci che ne ispiravano la parola. Sappiamo che anche nel corso del processo Giovanna continuava a ripetere di avvertire la voce di santa Caterina che le consigliava che cosa fare e dire. Nell'ambito del processo erano presenti alcuni suoi sostenitori e amici, e suo difensore era un prete di nome Loyseleur. Quando Giovanna si era lamentata per l'irriguardoso comportamento delle due guardie che l'avevano in consegna, il conte di Warwick le aveva immediatamente fatte sostituire con altre due, facendoci intuire in quale reverente riguardo era tenuta quella specialissima prigioniera. Pertanto, non avremmo da stupirci se per salvarla fosse stato ordito un geniale complotto, nel quale, a dirla tutta, non è da escludere partecipassero anche gli stessi Inglesi accusatori. Quando sulla piazza di Rouen, era stata innalzata la pira ardente del rogo, la folla che era corsa ad assistere all'esecuzione era tenuta a debita distanza da un cordone di oltre ottocento armigeri inglesi, cosa che avrebbe potuto tranquillamente impedire a chiunque di riconoscerla. Nel corso del processo per la riabilitazione tenutosi nel 1456 quasi tutte le testimonianze furono di seconda mano, salvo quelle di tre comandanti che avevano prestato servizio ai suoi ordini, certi Ladvenu, Massieu e Isambard, forse proprio tra i protagonisti del suo salvataggio in extremis, se non addirittura gli ideatori del complotto. La stessa procedura di riabilitazione venne condotta in modo più formale che sostanziale. Partì nel 1450 su iniziativa della madre di Giovanna, spalleggiata dal figlio Pierre, uno dei fratelli più giovani di Giovanna. Non è dato sapere se la madre accettò la signora des Armoires come l'autentica Giovanna, ma è evidente che anche lei si adattò all'accettazione generale dal momento che non si ha notizia che abbia denunciato la cosa come un falso. C'è comunque da sottolineare che sia lei che il figlio inoltrarono la richiesta di riabilitazione per la Giovanna che era stata mandata al rogo e uccisa nel 1431 nella piazza di Rouen. A ben osservare però, il movente che li mosse non era tanto affettivo, quanto più prosaicamente economico. In vita Giovanna era diventata una donna ricca, viste le continue regalie del re, ma ogni suo bene era stato congelato all'atto della scomunica papale. E così, che la famiglia credesse oppure no, che la signora des Armoires fosse la rediviva Giovanna poco importava; ciò che più contava era riuscire a riabilitarla per potere mettere mano sulla sua eredità, anche se questo significava ammettere che era morta. Concludendo, possiamo osservare che se la signora des Armoires era veramente Giovanna d'Arco tornata in vita, la situazione è veramente ironica. Nel corso della prima carriera di veggente e guerriera, la vergine pulzella si era rivelata una presenza scomoda e sconvolgente; ora che era ritornata era accaduta la stessa cosa, perché la sua improvvisa ricomparsa sulla scena sconvolgeva quei nuovi equilibri che erano andati a configurarsi dopo la sua morte. Come a dire che anche essere santi è una bella fatica. 


ATLANTIDE E MU
Le leggende sull'esistenza di civiltà millenarie, scomparse in seguito ad un grande cataclisma, si ritrovano nelle mitologie delle antiche popolazioni di tutta la Terra.
Il primo a parlare di Atlantide è Platone. Nel suo Timeo ci racconta dei viaggi di Solone in Egitto, dove i sacerdoti lo mettono a conoscenza di una guerra combattuta millenni prima tra gli antenati degli Ateniesi e gli Atlantidei.
Atlantide, 9500 a.C.
Nel centro dell'oceano Atlantico c'è una grande isola, una sorta di monarchia confederata i cui dieci sovrani governano molti paesi.
I domini si estendono a varie regioni dell'Africa, dell'Egitto, dell'Europa e del Sud America.
La capitale di Atlantide è una grande e splendida città, un grande porto sul mare il cui sistema di difesa consiste in alcuni cerchi concentrici con accessi sfalsati l'uno rispetto all'altro, con altrettanti grandi canali circondati da alte mura d'acciaio. Inattaccabile per gli uomini, ma non per le forze della natura: un grande cataclisma la sprofonda nell'oceano. La caduta di Atlantide provoca un imbarbarimento delle province confederate, dalle cui rovine nascono le civiltà oggi conosciute. Fin qui Platone. Solo nel XVI secolo si ricomincia a parlare di una possibile origine atlantidea delle civiltà sudamericane appena scoperte da Cristoforo Colombo, civiltà le cui leggende parlano di un grande cataclisma avvenuto, all'incirca, nella stessa epoca in cui il filosofo greco colloca i suoi racconti.
Leggende parallele
Un'antica leggenda messicana narra dell'isola di Aztlan, situata nell'Atlantico, che gli abitanti dovettero abbandonare perché stava sprofondando nell'oceano. I superstiti, che ne avevano preso il nome, si facevano chiamare Aztechi, ovvero abitanti di Aztlan. India, 1870. Il colonnello inglese James Churchward, appassionato di archeologia, scopre in un tempio molte tavolette scritte in una lingua estremamente antica. Il sommo sacerdote rivela a Churchward che si tratta di tavolette sacre perché scritte dai Sette Fratelli, detti "Naacal".
venuti dal continente Mu a portare le scienze, la religione e le sacre scritture. Secondo queste tavolette, l'uomo fece la sua comparsa per la prima volta proprio sul continente Mu, ora sprofondato nell'oceano Pacifico in seguito ad una grande catastrofe. Impossibile non notare delle analogie tra i Naacal e il dio egizio Thot. E altrettanto numerosi sono i punti di contatto tra le civiltà del Sud America e l'antico Egitto: le piramidi, particolari tecniche di costruzione murarie, la tecnica dell'imbalsamazione, la divisione dell'anno in 365 giorni. Si tratta di due civiltà distinte o di un solo grande popolo? Secondo alcune teorie, Mu era un grande continente situato nell'oceano Pacifico. Popolato da diverse razze, il potere era in mano ai bianchi, che adoravano un unico dio indicato con il nome fittizio di "Ra il Sole". Gli abitanti di Mu colonizzarono gran parte del Sud America e arrivarono fino all'Asia centrale e all'Europa dell'est. Poi, circa 13000 anni fa, in seguito ad immense eruzioni vulcaniche, Mu si inabissò provocando un maremoto di tale portata che sconvolse l'intero pianeta. In seguito, tale sorte toccò anche ad Atlantide.
Teorie sulla leggenda
Le ultime teorie sull'esistenza di Atlantide e Mu, propendono per due civiltà distinte e a sé stanti. Su Mu, oltre a quanto ipotizzato da Curchward, non sappiamo molto, mentre per quanto riguarda Atlantide le ipotesi sono numerose. Secondo una teoria, i fatti narrati da Platone non si riferiscono a 9000 anni prima, ma solo a 900, cioè al 1450 a.C., quando l'esplosione del vulcano dell'isola di Santorini, allora chiamata Thera, ne provocò il parziale inabissamento, generando onde di maremoto che colpirono l'isola di Creta, distruggendone la civiltà e lasciando segni sul territorio visibili ancora oggi. Questa teoria, però presenta molte lacune, oltre a non spiegare come i popoli del Sud America potessero conoscere fatti accaduti nel mare Mediterraneo.
Un'altro studio pone Atlantide nell'attuale altipiano subacqueo sul quale si trovano le isole Azzorre, luogo che corrisponderebbe alla descrizione fatta da Platone di un'isola con una catena montuosa e una vasta pianura irrigata. Ricerche effettuate nei fondali hanno effettivamente portato alla luce quelli che sembrano i resti di antiche opere dell'uomo. Questa teoria, inoltre, si fonda sui rilievi geologici effettuati alla base della catena montuosa sommersa nord atlantica, che risulta essere composta in prevalenza di basalto. Questo tipo di roccia, in prossimità degli oceani, tenderebbe a sprofondare mentre i continenti più antichi, composti in prevalenza di granito, avrebbero basi molto più solide.
Un mito tra i ghiacci perenni
Secondo un'altra recente teoria, invece, i resti di Atlantide sarebbero in Antartide, continente che un tempo si sarebbe trovato più a nord e, almeno in parte, libero dai ghiacci. Attraverso i millenni, la forza centrifuga generata dalla rotazione del pianeta, unita al peso di miliardi di chili di ghiaccio vicino a uno dei poli, potrebbe avere provocato uno slittamento di parte della crosta terrestre. A sostegno di questa teoria che, tra gli altri, Einstein dichiarò «tutt'altro che improbabile», esisterebbero delle prove. Il più recente movimento della crosta terrestre sembra essere avvenuto tra il 15000 e il 10000 a.C, periodo in cui gran parte del continente nordamericano era ricoperto dal ghiaccio. Con il finire della glaciazione, miliardi di chili di ghiaccio si sciolsero provocando l'innalzamento del livello dei mari e l'assestamento della crosta terrestre, non più gravata da un tale peso. In seguito a tali movimenti, l'Antartide si sarebbe potuta "spostare" quel tanto che basta perché i ghiacci la ricoprissero completamente. Le rovine di un'antica civiltà si troverebbero quindi sotto ai ghiacci del Polo Sud. Immagini satellitari mostrano conformazioni stranamente circolari nell'Antartide occidentale. Si tratta, probabilmente, di crateri vulcanici, anche se alcune analisi indicano la presenza di una forte concentrazione di ferro, particolare interessante visto che Platone ci riferisce che le mura circolari della città erano di metallo.
Atlantide in un lago?
Un'altra interessante teoria è quella secondo cui, nella disputa tra i geologi e i ricercatori favorevoli all'ipotesi Atlantide avrebbero ragione sia gli uni che gli altri. In poche parole, sarebbero nel giusto tanto i geologi nell'asserire che non esistono continenti sprofondati nell'oceano Atlantico, quanto Platone nell'affermare che Atlantide si trovava oltre le Colonne d'Ercole: secondo questa teoria, infatti, Atlantide sarebbe da collocarsi in Sud America. E, ovviamente, non sarebbe sprofondato l'intero continente ma solo Cerne, la capitale di Atlantide che si trovava in un'isola vulcanica situata al centro dell'antico lago Popoo, nell'altipiano centrale della Bolivia. Rilevamenti satellitari mostrerebbero una conformazione rettangolare, perfettamente livellata, circondata da un paesaggio simile a quello che descrive Platone. Tanto che sarebbero tuttora identificabili i letti dei canali e le mura circolari di difesa della città. Inoltre nella zona sarebbero presenti i minerali che, secondo quanto riferito dal filosofo greco, erano la ricchezza della enigmatica civiltà: oro, argento, rame e il misterioso oricalco. Insomma, le teorie su Atlantide sono talmente tante che il continente e stato situato un po' ovunque ma, a tutt'oggi, non è ancora stata trovata una sola prova certa che sia esistito.
L'ira degli dei, la forza della natura
Secondo le leggende, ci fu un tempo in cui le civiltà di Atlantide e di Mu divennero talmente potenti da mettersi in competizione con gli dei che, per punizione, ne provocarono la distruzione. Non ci sono prove che Atlantide e Mu non siano altro che un mito. In passato gli accademici ne hanno sempre avverso l'esistenza, anche per non mettere in discussione la data della creazione del mondo secondo la Genesi, calcolata Del 3760 a.C.
Oggi, secondo la scienza ufficiale, sul fondo degli oceani non ci sono tracce di cataclismi di tale portata. Ma, anche se ciò fosse vero, resta comunque da spiegare come mai nei miti e nelle leggende di tutte le civiltà si parla dei superstiti di un antico popolo la cui terra è stata distrutta da un cataclisma.
Il libro di Mormon
Pubblicato nel 1830, il Libro di Mormon rappresenta una vera a propria seconda Bibbia per la setta dei Mormoni. Narra dell'incontro avvenuto nel 1815 tra Joseph Smith, un contadino quindicenne dell'Ontario e l'angelo dal nome Moroni, che gli mostrò il nascondiglio di alcune antiche tavole scritte in una lingua ignota. Smith, grazie all'ispirazione dell'angelo Moroni, riuscì a tradurre completamente le iscrizioni contenute nelle tavole, nelle quali si narra di un cataclisma che interessò tutte le terre, provocando la distruzione e l'inabissamento di molte città e di interi popoli, i cui superstiti trovarono rifugio in quello che chiamarono "il paese di Abbondanza". Sempre secondo Smith, giunti in questa nuova terra fondarono templi e città, tra cui Palenque e Machu Picchu. Anche se nel testo Atlantide e Mu non sono mai menzionate, le analogie risultano evidenti. Oggi la Chiesa dei Mormoni conta in tutto il mondo oltre dodici milioni di fedeli residenti soprattutto negli Stati Uniti d'America.
Alcune ipotesi su Mu
II primo a supporre l'esistenza di un antico continente situato tra il Madagascar, Ceylon e Sumatra, fu P.L Sclater nel 1850 circa. Tale idea gli fu suggerita dalle affinità zoologiche esistenti tra le specie che vivono in territori separati da migliaia di chilometri di oceano. Evidentemente, secondo Sclater, un tempo doveva esistere una terra che aveva reso possibile la diffusione delle specie animali in un'area così vasta. Sclater, che basava la sua teoria principalmente sui lemuri, chiamò tale continente Lemuria. II naturalista Wallace, invece, collocava Lemuria tra l'Australia, la Nuova Guinea, le Isole Salomon e le Fiji. In quegli anni erano molti gli studiosi che concordavano sull'esistenza di un continente, ora sommerso, un tempo situato nel Pacifico. Solo non sapevano dove collocarlo. Nella disputa, che continuò negli anni, entrarono anche altri personaggi e altre teorie. Secondo la Teosofia il continente di Lemuria sarebbe stato la dimora della Terza Razza Madre e la culla dell'umanità. Le ricerche sui fondali effettuate con le moderne tecnologie non hanno però fornito nessuna risposta definitiva.
 
 

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