lunedì 23 gennaio 2012

CONCORDIA - La Maledizione





 Una storia sfortunata per la Costa Concordia, oggi affondata davanti le coste dell'isola del Giglio. Il 2 settembre del 2005 quello di Costa Concordia dai moli genovesi di Fincantieri a Sestri Ponente non era stato un varo fortunato: al momento della tradizionale "bottigliata" di champagne contro la fiancata della nave, la bottiglia non si ruppe Fatti e debiti scongiuri, fu un addetto sul ponte a recuperarla e a romperla a mano, tra gli applausi un po' imbarazzati delle autorità presenti, tra cui l'allora sindaco di Genova, Giuseppe Pericu, e l'allora arcivescovo di Genova, cardinale Tarcisio Bertone.

Poi l'incidente nel 2008 a Palermo . La nave era rimasta coinvolta in un altro incidente nel porto di Palermo. Il 22 novembre 2008 a causa del mare mosso e delle forti onde la nave rimase danneggiata con un ampio squarcio tra la prua e la fiancata destra, provocato durante le operazioni di ingresso in porto. Nessuno rimase ferito. Ecco la testimonianza diretta di alcuni operai palermitani che filmarono la nave

La presentazione del Napoli. Il 3 agosto del 2009 fu la prima tappa napoletana ufficiale per la squadra voluta dal presidente De Laurentiis e assemblata da Pierpaolo Marino. Era la squadra di Quagliarella, allenata da Donadoni. Mille furono gli invitati vip. Chi arrivò in elicottero, chi in offshore. Simona Ventura fu la madrina. Sul palco salì anche Alessandro Siani. E De Laurentiis abbracciò Lavezzi dopo qualche frizione estiva. Fu scelta una nave come un simbolo, con la speranza che il viaggio del Napoli si fosse potuto concludere con un approdo europeo.




 Costa Concordia, 114.500 tonnellate di stazza ed un pescaggio di 8,5 metri, 1.500 cabine per 3.780 passeggeri



Costa Concordia è la più grande fra le navi della flotta. Ha potuto vantare per prima la costruzione del più grande Centro benessere a bordo di una nave, denominato Samsara Spa, dislocato su due piani e con una superficie di oltre 2 100 m². La nave ha 1 500 cabine totali, di cui 87 all'interno dell'area benessere e 505 con balcone privato, 58 suite con balcone privato e altre 12 suite all'interno dell'area benessere.
La nave ha quattro piscine salate, due delle quali con copertura semovente in cristallo che permette l'utilizzo anche durante le stagioni invernali o in caso di maltempo e una dotata di scivolo toboga; le cinque vasche idromassaggio jacuzzi ad acqua calda; un campo polisportivo; un percorso jogging.
Dispone di 5 ristoranti di cui due a pagamento e 13 bar.
Per quanto riguarda gli svaghi Costa Concordia offre un teatro disposto su tre piani, il Teatro Atene, un simulatore di guida Gran Premio, videogame, la discoteca, sale da ballo e il casinò.


Costa Concordia: immagini e informazioni sulla nave. Com’era prima dell’incidente

Costa concordia piscina chiusa
Costa concordia piscina chiusa

Dopo il tragico incidente che ha coinvolto la costa Concordia di Costa Crociera, tutti noi abbiamo davanti la terribile immagine della nave obliqua per metà coperta dall’acqua proprio di fronte la costa dell’Isola del Giglio. Molti però si sono chiesti com’era la nave prima dell’incidente, quando la Costa Crociere la presentava come una “avvenieristica ed esclusiva nave da crociera” in cui “il divertimento, il relax e l’emozione di una vacanza speciale prendono forma”.

Dopo vari tentativi a causa delle troppe connessioni in contemporanea, sono riuscita ad accedere al sito web di Costa Crociera e a sbirciare un po’ di informazioni sulla Costa Concordia. A leggere ciò che riporta la pagina dedicata alla nave, c’è davvero da restare senza parole. All’interno erano presenti 1500 cabine di cui 55 (le più lussuose) nell’area Samsara Spa. Un terzo del totale avevano balcone privato e in tutto erano 58 le suite. Molto ricca la scelta per la ristorazione (5 ristoranti e 13 bar), l’area relax era davvero da sogno (5 vasche idromassaggio, 4 piscine e scivoli). All’interno della Costa Concordia ben 6mila mq erano riservati all’area benessere Samsara Spa che poteva vantare palestra, terme, sauna, bagno turco e solarium. Il ponte piscina aveva il tetto in cristallo semovente per trasformarsi all’occorrenza in una splendida piscina coperta.
I clienti che amavano lo sport potevano svagarsi all’interno del campo polisportivo, per gli amanti dell’arte e del cinema c’era il cinema 4D o un teatro su tre piano. Immancabili il casinò e la discoteca.
La Costa Concordia era stata costruita nel 2006 e pesava più di 144mila tonnellate. Poteva trasportare fino a un massimo di 3780 ospiti e circa 1100 membri di equipaggio. aveva 17 ponti (di cui 14 a uso degli ospiti) e poteva raggiungere una velocità pari a 23 nodi (pari circa a 42 km all’ora). un “bestione” del mare di 290 metri di lunghezza e 35 metri di larghezza. Tanto per intenderci: un campo da calcio è lungo circa 105 metri.
Di seguito potete vedere alcune immagini di com’era la Costa Concordia prima del drammatico incidente del 13 gennaio 2012.
Costa Concordia arte
Costa Concordia arte
Costa concordia chiesa
Costa concordia chiesa
Costa concordia
Costa concordia
Costa concordia in mare
Costa concordia in mare
Costa concordia in navigazione
Costa concordia in navigazione
Costa concordia piscina aperta
Costa concordia piscina aperta
Costa concordia porto
Costa concordia porto
Costa concordia ristorante samsara
Costa concordia ristorante samsara
Costa concordia sala
Costa concordia sala
Costa concordia sala da ballo
Costa concordia sala da ballo
Costa concordia sala relax
Costa concordia sala relax
Costa concordia samsara
Costa concordia samsara
Costa concordia sauna
Costa concordia sauna
Costa concordia scale
Costa concordia scale
Costa concordia suite e ponti
Costa concordia suite e ponti
Costa concordia tetto
Costa concordia tetto

FIAT - Storia e Curiosità

Un certo Agnelli, torinese, ebbe un'idea. Quella di mettersi
a fabbricare automobili su scala industriale.
Era il 1899. Partenza lenta. Ma poi diede tutto gas…


E LA FIAT DIVENTO'
UN ASSO PIGLIATUTTO


 

Vittorio Emanuele III, re d'Italia, in visita agli
stabilimenti Fiat. Accanto a lui Giovanni Agnelli


Alla fine del secolo scorso, mentre in Francia e Germania l'industria automobilistica tende ad assumere una dimensione industriale, nel nostro paese l'automobile continua a rimanere quasi sconosciuta. La casa tedesca Benz, prima al mondo, è attiva dal 1889 e dieci anni dopo produce la duemillesima vettura; le francesi Peugeot e Panhard sono presenti sul mercato dal 1891 e offrono una svariata gamma di tipi. Nel 1901 escono dalle fabbriche francesi sedicimila autovetture, da quelle italiane appena trecento; due anni prima le automobili circolanti in tutta la penisola sono un centinaio, mentre nella sola Parigi i veicoli con motore a scoppio raggiungono le duemila unità. Nel 1898 esistono in Italia tre costruttori che si occupano del nuovo mezzo di trasporto: Lanza e Ceirano a Torino; Ricordi a Milano. Se i primi due riescono ad assemblare circa una decina di esemplari ciascuno, il milanese Giuseppe Ricordi preferisce importare dalla tedesca Benz i telai delle vetture, provvedendo a carrozzarli ed a commercializzarli. Le due aziende torinesi sviluppano quindi - prime in Italia - un proprio prodotto, progettato e realizzato autonomamente. Nei primi mesi del 1899, sempre nel capoluogo piemontese, matura l'idea di fondare una nuova società per la produzione su scala industriale di automobili.
L'iniziativa parte da un gruppo di aristocratici, possidenti e professionisti, accomunati dalla larghezza di mezzi e da una forte passione per il nuovo veicolo; fino a quel momento i loro incontri avvengono nell'elegante caffè Burello, nei pressi della stazione ferroviaria di Porta Nuova. Torino conserva ancora i tratti dell'ex capitale: centro amministrativo e di consumo, sede di banche private e di un ceto benestante interessato più alla speculazione finanziaria immediata che all'investimento produttivo. L'industria meccanica si basa soprattutto sulle vecchie fondamenta degli opifici governativi, nel mezzo di un complesso disperso e disarticolato di piccole officine e laboratori artigianali. In questo quadro si inserisce l'iniziativa di fondare la Fiat, valida occasione per intraprendere un'attività economica di ampio respiro, assicurare alla città la presenza di un settore industriale all'avanguardia e investire patrimoni fino ad allora immobilizzati. I fondatori della nuova società, evidentemente consapevoli di questi obbiettivi, si ritrovano l11 luglio 1899 presso la sede del Banco Sconto e Sete dove firmano l'atto costitutivo.
Ben presto la FIAT diverrà, come è tuttora considerata, il dominio della famiglia Agnelli. Ma ricordiamo che i fondatori furono trenta, che concorsero a formare il capitale iniziale di lit. 800.000, suddiviso in quattromila azioni da lire duecento cadauna. I componenti del consiglio di amministrazione erano i più bei nomi di Torino: Agnelli, Biscaretti, Bricherasio, Ceriana-Mayneri, Damevino, Ferrero di Ventimiglia, Goria-Gatti, Racca e Scarfiotti e detenevano 150 azioni ciascuno. La maggioranza relativa (705 azioni) era in possesso del Banco Sconto e Sete (partecipato dalla famiglia Agnelli, industriali e commercianti di seta), che aveva collocato altri titoli presso la sua clientela.
Con Scarfiotti presidente e Agnelli amministratore delegato, la Fiat iniziava la sua attività.
Negli anni successivi, Torino cresce con l'automobile. Nel 1901, con una popolazione di 335.000 unita, gli operai addetti al ramo metalmeccanico sono circa 15.000, tra cui pochissime centinaia nell'industria dell'auto; dieci anni dopo - su un totale di 427.000 abitanti - i metalmeccanici superano le 30.000 unità, per meta impiegati nel settore automobilistico. Grazie a quest'ultimo, nascono interi quartieri popolari; l'esempio più significativo è offerto dal rione San Paolo che, nel periodo 1901-1921, passa da 4.000 a 32.000 abitanti per la presenza di ben tredici case: Ceirano, Chiribiri, Diatto, Fast, Fod, Itala, Lancia, Lux, O.M.T., Nazzaro, SCAT, S.P.A. e Taurinia. A queste bisogna aggiungere l'Ansaldo, che contribuisce fortemente ad aumentare gli abitanti del quartiere
Due fattori
permettono alla Fiat
di sopravvanzare
le aziende
concorrenti...
Barriera di Milano da 5.700 a 25.000. A Torino il nuovo settore dell'industria meccanica non è quindi rappresentato dalla sola Fiat che, tuttavia, conquista rapidamente fette sempre più ampie di mercato. Nel 1904 su 3.080 veicoli fabbricati tra tutte le case italiane, quelli prodotti dalla fabbrica torinese sono appena 268, dieci anni dopo dai cancelli di corso Dante ne escono 4.644, oltre la metà di tutta la produzione nazionale. Due fattori permettono alla Fiat di raggiungere cosi rapidamente il predominio sulle aziende concorrenti, già prima delle ingenti commesse militari durante la grande guerra: la spregiudicatezza di Giovanni Agnelli e la decisione di "fare come il Ford".

 Sul primo punto, l'episodio più noto è l'iperbolica crescita dei titoli automobilistici nel 1905-06 e il loro crollo improvviso nel 1907: numerose case devono chiudere o ridimensionarsi, mentre "stranamente" la sola Fiat a posteriori trae da questa rovina un vantaggio incolmabile.
Altro elemento non trascurabile sono i forti sospetti che - nello stesso periodo di questa crescita chiaramente artificiale - la società torinese sia entrata nell'orbita e nella protezione della Banca Commerciale tramite un prestanome: il fantomatico ing. Attilio Bossi, che appare improvvisamente sulla scena nel 1906, detenendo subito il 30% del pacchetto azionario. Agnelli e i suoi soci - denunciati nel giugno 1908 per illecita coalizione, falsificazione dei bilanci e aggiotaggio - sono poi prosciolti dalle accuse solo quattro anni dopo e in un secondo processo l'anno successivo, benché le perizie giudiziarie del 1909 avessero confermato di fatto tutte le accuse. Al vantaggio che la Fiat acquisisce dalla crisi del 1907, si aggiunge negli anni seguenti un effettivo e notevole aumento della produzione, grazie alla razionalizzazione del lavoro e all'applicazione parziale dei metodi tayloristici. Questo fondamentale "salto di qualità" avviene nel 1912, con l'introduzione della prima utilitaria Fiat prodotta in serie, la tipo "Zero"; la nuova automobile è lanciata sul mercato a un prezzo di 8000 lire, che un anno dopo - grazie all'ammortamento dei costi - si abbassa a 6900 lire.
Nello stesso anno Agnelli compie il primo viaggio negli Stati Uniti: da esso trae le decisioni che più incidono su questa nuova fase produttiva della sua azienda. A Detroit Agnelli, visitando le grandi officine della Ford, apprende quanto la lavorazione in serie possa abbassare i costi e rivoluzionare la produttività di una industria. La produzione nelle officine della casa di Detroit cresce a ritmo vertiginoso: da 34.550 Ford "Model T" fabbricate nel 1911 a 248.307 del 1913. È il risultato dell'applicazione pratica di un nuovo sistema industriale concepito da Henry Ford, comunemente indicato come "fordismo", che consiste nell'integrazione sistematica di quattro elementi: "Time and Motion System", lo studio del modo più efficace per svolgere una certa prestazione lavorativa; "American System", ovvero l'intercambiabilità dei pezzi; "Jig System", lo studio e la costruzione di apparecchiature ausiliarie necessarie per razionalizzare le lavorazioni meccaniche e "Standardized and Synchronized System". Quest'ultimo, unico tra i quattro elementi formulato da Ford, costituisce la fase che sviluppa e integra in un disegno complessivo i primi tre, coordinandone sinergicamente le potenzialità produttivistiche. Consiste nel collegare in sequenza tutte le operazioni di lavorazione delle parti con quelle dell'assemblaggio attraverso sistemi di movimentazione automatica. In altre parole, è la catena di montaggio. La sua introduzione ad Highland Park implica quindi la nascita della moderna industria dell'auto, basata sulla produzione in grande serie. Soprattutto grazie ai quindici milioni di Ford "Model T" prodotte fino al 1927, negli Stati Uniti
Un vecchio modello della Fiat (anni Trenta)
conservato nel museo dell'automobile di Torino
l'automobile diventa un indispensabile strumento di lavoro e spostamento per le masse. Benché una tale motorizzazione in Italia (e anche negli altri paesi europei) sia allora neanche ipotizzata e le Fiat rimangano automobili di scuola europea, dalla costruzione raffinata, dal 1912 la parola chiave dietro i cancelli di corso Dante è quindi "fare come il Ford".
L'automobile diventa strumento indispensabile del nostro secolo sia con la motorizzazione delle masse americane che tramite un altro processo, ad esso cronologicamente parallelo ma di più vasta e tragica portata. Dal 1914, con lo scoppio del primo conflitto mondiale, in Europa milioni di uomini nei vari eserciti iniziano a familiarizzare col nuovo mezzo di trasporto. Le case automobilistiche dei paesi belligeranti devono ora far fronte a ingenti commesse militari; vi è in particolare una forte richiesta di autocarri per il trasporto delle truppe. Fino a quel momento, in Italia e in Europa si ha dell'automobile una concezione ancora prettamente turistica e sportiva. Con l'impiego bellico, le sue potenzialità sono per la prima volta sperimentate su vasta scala. Al termine del conflitto il nuovo veicolo si è dimostrato prezioso strumento di comunicazione con il fronte, indispensabile per il trasporto di merci e uomini; nel nostro paese come nel resto d'Europa.
Durante i quattro anni di guerra, in Italia l'indotto industriale legato all'automobile registra una forte crescita: le aziende del settore passano da 32 nel 1913 a 55 nel 1917 e nello stesso tempo il loro capitale da 300 milioni a due miliardi e mezzo di lire. Torino e la Fiat sono le realtà del nostro paese più coinvolte in questa "industrializzazione di guerra". Nell'arco di soli tre anni la casa torinese quasi quintuplica la produzione di autoveicoli: dai 4.644 del 1914 ai 19.184 nel 1917 (soprattutto camion 18 BL per l'esercito); nello stesso periodo la sua manodopera diretta passa da meno di 4000 a 15000 operai. Il "fordismo", già adottato in parte nell'anteguerra per la produzione della "Zero", trova ora applicazione su scala maggiore (ben lungi, tuttavia, da essere totale). Solo una produzione in grande serie, basata sulla divisione del lavoro - e per mansioni cosi ripetitive è sufficiente l'impiego di donne e adolescenti mentre gli uomini sono al fronte, come in effetti avviene - può rispondere adeguatamente alle pressanti commesse militari.
Anche le altre principali industrie automobilistiche torinesi - Lancia, Itala e Diatto, cui si aggiungono le milanesi Bianchi e Isotta Fraschini - si ritrovano coinvolte nello stesso processo, ma in misura decisamente inferiore. Grazie alla favorevole congiuntura bellica, alla fine della guerra la Fiat è ormai un colosso industriale e finanziario su scala nazionale; dopo l'Ansaldo e l'Ilva - presto travolte dalla crisi del dopoguerra - occupa il terzo posto tra le società anonime con maggiore capitale. In questo quadro di rapidissimo sviluppo si inserisce la necessità di una nuova fabbrica più grande e razionale degli stabilimenti di corso Dante, ormai ampliati al massimo. Tra il 1916 e il 1919 avviene quindi la costruzione dello stabilimento Lingotto, prima fabbrica europea di automobili progettata e organizzata per la produzione continua. Elemento significativo: la sua struttura è tipica dell'architettura industriale americana di quegli anni. Il nuovo, gigantesco opificio rappresenta la nuova, moderna realtà industriale di Torino.
Le necessità belliche hanno anche accresciuto notevolmente il patrimonio tecnologico dell'industria automobilistica torinese, che tende sempre più a identificarsi con quella nazionale. Ai 39 brevetti depositati dalla Fiat nel 1912-17 ne seguono altri 39 presentati nel solo biennio 1917-18. Inoltre, fin dalle prime settimane di pace, non pochi operatori nel settore credono ormai vicina la motorizzazione dei ceti benestanti.
Nel dicembre 1918 Giovanni Agnelli annuncia l'imminente commercializzazione della Fiat "Tipo 500", una economicissima vettura che, causa probabilmente la difficile congiuntura dei mesi successivi non supera lo stadio del prototipo. Come avviene in Francia e Gran Bretagna, nell'immediato dopoguerra sorgono nei sobborghi torinesi nuove case (Temperino, Moto-Cor, Prince e Fod) che lanciano sul mercato piccole automobili. Il loro successo commerciale è
Un vecchio manifesto della Fiat
che pubblicizza un'auto di lusso
comunque effimero, non potendo disporre del capitale sufficiente per iniziare una produzione in serie e quindi razionalizzare i costi; da qui l'impossibilità di gareggiare con la Fiat, sempre più competitiva nel settore delle vetture di cilindrata contenuta.
La grande casa torinese, a partire dal 1919, può iniziare ad allestire negli stabilimenti Lingotto, in via di rapida ultimazione, le linee di montaggio per la produzione dell'economica "501", prima automobile italiana ad essere fabbricata in grande serie. Se le 2.200 Fiat "Zero" prodotte nel 1912-15 rappresentano nell'anteguerra un traguardo significativo, in un arco di tempo solo di poco superiore escono dal Lingotto 67.710 "501".
Nel frattempo però l'Italia, uscita vittoriosa dalla tempesta della Grande Guerra, non riesce a vincere il dopoguerra. Giovanni Agnelli, come tutti gli altri industriali, non può non vedere con timore il disordine piazzaiolo e un sindacalismo barricadiero che finirà peraltro per squalificarsi proprio con quel boomerang che fu l'occupazione delle fabbriche. Come molti altri capitalisti, anche Agnelli finanzierà le squadre fasciste, ma senza particolare entusiasmo. Questo Mussolini, che vuole di preciso?
Ma prima di qualsiasi analisi, dobbiamo tenere ben presente che il mondo di Agnelli è la Fiat, e che la Fiat è (per lui) la misura di tutte le cose. "Noi industriali siamo ministeriali per definizione": questa massima del grande torinese potrà anche scandalizzare per cinismo, ma è semplicemente, più che realistica, sincera. Il potere politico e il potere economico non possono che vivere in simbiosi mutualistica, se non vogliono rovinarsi a vicenda.
Agnelli lo sa benissimo, come lo sa benissimo Mussolini. E quando quest'ultimo arriva al potere, si stabilisce un clima che potremmo chiamare di reciproca cortesia. I primi provvedimenti del governo fascista non possono che essere graditi agli industriali (la commissione per l'indagine sui proventi di guerra è sciolta; di nominatività dei titoli azionari non si parla più) e allo stesso Agnelli arriva la nomina a senatore, attesa invano sotto Giolitti.

 D'altra parte Agnelli sa ricambiare le cortesie, e agisce in modo che il quotidiano La Stampa cessi le sue polemiche col governo, soprattutto dopo il delitto Matteotti, estromettendo Frassati (una delle ultime voci libere rimaste) dalla direzione del giornale. Ma Agnelli tiene molto al suo ruolo: sia ben chiaro che lui è il più importante industriale italiano; non si comporterà mai con piaggeria, starà sempre su un gradino che, se non più alto, sarà però comunque diverso da quello dei vari postulanti e dei nuovi gerarchi. Riesce a ottenere l'allontanamento di De Vecchi, chiassoso e volgare ras di Torino, ma a sua volta provvede ben bene ad epurare la Fiat dagli ultimi strascichi di sindacalismo che non sia fascista. Non si iscrive al partito, ma la tessera gli viene offerta honoris causa nel 1932. Nel frattempo la politica fascista di riarmo e il grande impulso dato all'attività aviatoria hanno consentito alla Fiat nuovi enormi guadagni.
Insomma, quando Agnelli, nel clima di epurazione del 1945, disse che la tessera fascista era stata per lui "una croce da accettare" diceva probabilmente, sotto la sua angolatura, la verità. L'appoggio che la Fiat diede a diversi settori della Resistenza, pur mantenendo ottimi rapporti con la Repubblica Sociale e con gli occupanti tedeschi, stanno a dimostrare come la morale fu, sempre, una sola: "Con chiunque, purché questo coincida col bene dell'universo (cioè della Fiat)".
Ma torniamo alla storia più propriamente aziendale: dal 1925 al 1929 la produzione della più piccola "509" sfiora le centomila unità. Gli altri costruttori torinesi, pur presentando modelli altrettanto validi, non dispongono di mezzi adeguati per contrastare l'aggressività commerciale della Fiat. Prima la difficile congiuntura del dopoguerra e in seguito la crisi del 1930-32, segnano definitivamente la loro sorte. Nell'arco di un
La Fiat 500 (anni 30), l'utilitaria che per le sue
ridotte dimensioni venne chiamata "Topolino"
decennio Ansaldo, Ceirano, Chiribiri, Diatto, Itala, S.P.A. e Scat sono costrette a chiudere e spesso ad essere assorbite dalla Fiat. L'eccezione é rappresentata dalla sola Lancia che, grazie all'offerta di modelli tecnologicamente all'avanguardia, riesce a conservare fette di mercato relativamente ampie in Italia e all'estero.
Negli stessi anni la Fiat, ben lungi dal limitarsi ad esercitare il quasi-monopolio sul mercato automobilistico nazionale, ha diversificato la propria attività ed è diventata la più grande realtà imprenditoriale del paese. Oltre all'acquisto del quotidiano "La Stampa", l'azienda ha assunto il controllo di buona parte della produzione nazionale nel settore ferroviario, aeronautico e cantieristico.
La fondazione dell'IFI nel 1927 è una tappa essenziale in questo processo: negli anni successivi, la finanziaria torinese controlla sessanta tra le più importanti società presenti in tutti i settori produttivi. La vita economica, politica e sociale del capoluogo piemontese è sempre più legata alle sorti della grande azienda: dalla fine degli anni venti, Torino è ormai la "città della Fiat". Benché la politica autarchica del regime ne rallenti in parte lo sviluppo e la disfatta militare del 1942-43 lo interrompa del tutto, fin dall'immediato dopoguerra la Fiat, sotto la nuova presidenza di Vittorio Valletta, è pronta a reinterpretare il suo ruolo guida per la città. E per lo sviluppo economico del paese.
Negli anni successivi sarà infatti la motorizzazione di massa (a partire dal 1955-57, con l'arrivo sul mercato delle Fiat "600" e "500") il principale volano per il "miracolo economico".

ALFA ROMEO - Storia e Curiosità

Portello
Alle origini della storia dell'Alfa Romeo ritroviamo la "Società Italiana Automobili Darracq" fondata a Roma nel 1906 per la produzione di automobili a basso costo, ma sia l'inizio che lo sviluppo di tale azienda incontrarono subito moltissime difficoltà poichè il mercato automobilistico, che aveva conosciuto una forte crescita fin dai suoi esordi agli inizi del '900, ora subiva una sorta di assestamento con un calo della vendita di autovetture. Gli stabilimenti, che erano stati eretti a Milano nell'area denominata il Portello, passarono dapprima in mano a un gruppo italiano, formato per lo più da appassionati automobilisti, con la denominazione "Alfa Anonima Lombarda Fabbrica Automobili", per poi passare nel 1915, dopo essere stata messa in liquidazione, nelle mani dell'Ing. Nicola Romeo e quindi alla sua azienda l' "Accomandita Ing. Nicola Romeo e Co."



Ing. Nicola Romeo
Nicola Romeo nacque a S.Antimo, in provincia di Napoli, nel 1876 e si laureò in ingegneria nel 1900 facendo poi alcune esperienze all'estero, fino a che nel 1911 fondò la Società in accomandita semplice "Ing. Nicola Romeo e Co." che fabbricava macchinari e materiali per l'industria mineraria. Fu questa società che gli permise nel 1915 di rilevare gli stabilimenti del Portello e di dedicarsi alla produzione di materiali di tipo bellico, ormai era iniziata la Prima Guerra Mondiale e la richiesta da parte dello Stato di autocarri e motori si faceva sempre più pressante.
Finita la guerra nel 1918 fu cambiato il nome della società in "Società Anonima Ing. Nicola Romeo e Co." e, nel contempo, vennero assorbite: le Officine Meccaniche di Saronno, le Officine Meccaniche Tabanelli di Roma e le Officine Ferroviarie Meridionali di Napoli. La nuova società, rogata con atto costitutivo dal notaio Federico Guasti di Milano, il 3 febbraio 1918, aveva per oggetto "l'impianto e l'esercizio di industrie meccaniche, siderurgiche, agricole, minerarie, chimiche ed estrattive in genere, più specialmente... per l'esercito, l'aviazione, la marina e l'agricoltura... motori a scoppio per qualsiasi applicazione; aerei, automobili, locomotive e altri rotabili in genere".
Come si può leggere nell'Atto Costitutivo per Nicola Romeo la produzione dell'azienda non doveva comprendere solo le automobili, ma doveva coprire anche le altre aree, anche se poi finì con il diventare famosa proprio grazie alla produzione delle autovetture. D'altra parte non aveva neanche trascurato di circondarsi di tecnici capaci come Giuseppe Merosi, Vittorio Jano ed altri ancora.
Giuseppe Merosi
Giuseppe Merosi nasce a Piacenza nel 1872, il capo progettista dal 1910 al 1924 è la persona giusta, dai suoi progetti escono vetture efficaci e piacevoli, destinate alla strada e alle competizioni. Il progettista realizza nel 1923 la P1, biposto per le corse destinata a debuttare nel Gran Premio di Monza, ma l’incidente mortale di Sivocci durante le prove ferma sul nascere il cammino della vettura. Più fortunate le automobili per la clientela privata, la RL e la RM.
Vittorio Jano
Vittorio Jano, torinese, strappato alla Fiat grazie alla mediazione di Enzo Ferrari, arriva all'Alfa Romeo nel 1923 e realizza subito la mitica P2, vettura che rimarrà imbattuta per sette anni, la 1750 che domina la Mille Miglia nel 1929 e nel 1930, la P3 che dal 1932 diventa la preferita dei più grandi piloti del momento. Lascia l'Alfa Romeo nel 1937.
Come tutte le altre aziende che avevano dedicato il periodo della guerra alla produzione aeronautica o di mezzi pesanti, anche la neonata società si trovò ad affrontare non solo il problema della riconversione, ma anche tutti i problemi legati alla recessione economica e alla fine del periodo bellico. Riuscì comunque a risolvere i propri problemi grazie all'aiuto del "Consorzio sovvenzioni sui valori industriali" e abbandonando sempre piu le produzioni aeronautiche per specializzarsi in autovetture, alcune delle quali conseguirono grandi successi sportivi.
Vittorio Jano e Rodolfo Caracciola (Monza 1932)
 
Tazio Nuvolari (Coppa Vanderbilt 1938)
Negli anni '20 l'azienda fu coinvolta in un'altra crisi, questa volta però legata alla Banca Italiana di Sconto che deteneva la maggior parte delle azioni, tanto che nel 1927 si pensò addirittura di metterla in liquidazione. Ma ormai l'Alfa Romeo aveva acquistato rinomanza sia in Italia che all'estero, intessendo rapporti commerciali con vari paesi quali l'America, la Spagna, l'Inghilterra e altri ancora; questo impedì la chiusura di una società così famosa nel mondo e che non aveva perso tutte le speranze di salvarsi, ma che sicuramente con una ristrutturazione avrebbe potuto risollevarsi.
Nicola Romeo, Presidente dal 1918, non accettò i drastici cambiamenti che si volevano attuare, per cui nel 1928 chiuse definitivamente i suoi rapporti con l'Alfa Romeo per contrasti ormai divenuti insanabili. Nel 1933 passò alla gestione IRI e venne decisa una ristrutturazione interna per portare l'azienda ad un graduale miglioramento proponendo la nomina di un Consiglio di Gestione, eletto per metà dai soci possessori di capitali e per metà dai lavoratori, con il compito di varare un nuovo Statuto e portare l'Alfa Romeo a livelli competitivi con le altre case automobilistiche.
La ristrutturazione non avvenne soltanto per opera dell'IRI, ma soprattutto grazie agli interventi del nuovo Direttore Generale Ing. Ugo Gobbato.
Ugo Gobbato
Ugo Gobbato nasce a Volpago di Montello, nel Trevigiano, da una famiglia di agricoltori. Il diploma di Perito industriale gli permette di fare esperienza in Germania, dove riesce a laurearsi in ingegneria meccanica. Lavora alla Fiat e nel 1933 subentra ai vertici Alfa Romeo dopo il difficile passaggio al controllo statale. Chiamato a salvare il destino dell'Alfa, Gobbato sceglie una linea prioritaria che abbandona momentaneamente l'auto per dedicarsi a motori aeronautici e ai mezzi militari. Resiste ai vertici dell'azienda anche sotto l'occupazione nazista. Il 28 aprile del 1945 a pochi giorni dalla Liberazione, resta ucciso in un misterioso attentato.
In un verbale del Consiglio d'Amministrazione l'Ing. Gobbato informava il consiglio di non aver avuto il tempo di studiare la situazione dell'azienda in modo dettagliato, ma che da un esame sommario aveva "tratto l'impressione che attraverso una riorganizzazione sia tecnica, sia commerciale, l'azienda possa avviarsi verso un avvenire migliore. Ha gia predisposto che la manodopera esuberante sia adibita ad un reparto speciale a lavori di assestamento e di riparazione di macchine ed attrezzi ed ancora tende a precisare i compiti di ognuno... Infine propone che sin d'ora il Consiglio voglia disporre per l'eliminazione di alcuni dirigenti... le cui funzioni devono essere soppresse".
Quindi eliminazione di alcuni dirigenti, ma non della manodopera, che doveva essere impiegata per altri scopi probabilmente perchè in quel periodo si sentiva la necessità di avere più operai specializzati che dirigenti, infatti la riduzione toccherà anche gli impiegati. Proprio riguardo a questi ultimi si legge che "per eventuali licenziamenti si dovrà tenere conto sempre delle capacità tecniche particolari di ognuno, dello stato di famiglia e dell'appartenenza al Partito potendosi preventivamente addivenire ad una revisione di stipendi per adeguare i compensi alle mansioni svolte".
Quindi cambiamenti drastici, licenziamenti, ma non avventatezza nelle scelte del Direttore Generale che comunque cercava di dare delle gratificazioni economiche più adeguate al lavoro svolto. Attraverso lo studio di Norme generali, Ordini di servizio e comunicati si può dedurre che nel 1934 l'organizzazione dell'azienda risultava cosi strutturata:

 Organizzazione Azienda 1934
Dalla Segreteria dipendeva direttamente la gestione del personale, nel 1938 venne poi anche creato un distinto Comitato del Personale con il compito di definire le mansioni di tutti i dipendenti e la retribuzione, cosi come aveva proposto il Direttore Generale Ugo Gobbato. Inoltre altre mansioni venivano gestite dalla Segreteria Legale e Sindacale, e nel 1942 venne costituito un Centro di preparazione del personale comprendente corsi di specializzazione per ingegneri, periti industriali, apprendisti e operai, per finire nel 1944 a cui vennero affiancate anche attivita relative al dopolavoro.



Le sorti dell'Alfa Romeo cominciavano, quindi, con l'intervento di Ugo Gobbato, a prendere una piega diversa, tanto che l'occupazione al Portello salì a 6000 operai, mentre nel 1938 si cominciò a costruire un nuovo stabilimento a Pomigliano d'Arco (Napoli) ed il capitale venne notevolmente aumentato.
Reparto Carrozzeria
Intanto la situazione economica dell'Alfa Romeo registrò anche durante il periodo bellico un bilancio positivo, infatti il Direttore Generale riferisce che nel 1942 la produzione complessiva era aumentata del 14% in confronto all'anno precedente e per il 1943 era previsto un ulteriore aumento sia per quello che riguardava lo stabilimento di Milano che quello di Pomigliano.
Ma anche quest'ultimo il 30 Maggio 1943 subì un attacco aereo che provocò la distruzione dello stabilimento e la morte di impiegati che al momento si trovavano sul luogo di lavoro.
Effettivamente un piano di decentramento era già in atto anche in questa zona infatti, per un accordo con la Regia Aeronautica, un reparto motori si trovava già a Marigliano, ma gli altri reparti e uffici non erano ancora stati trasferiti perchè i lavori nelle grotte di S.Rocco non erano stati terminati in tempo.
Il piano prevedeva che circa 800 operai si sarebbero dovuti trasferire per iniziare la lavorazione della prima linea dell'officina motori, a questo doveva essere aggiunto un reparto produzione ausiliaria, e, così proponeva il Consiglio di Amministrazione nella persona di Ugo Gobbato, anche una parte del reparto presse e leghe leggere. Per tutti gli altri reparti o questi erano impossibili da trasportare o erano in corso accordi.
E' interessante notare come tra mille disagi si noti comunque una voglia di continuare, di tenersi in vita; nonostante le distruzioni e i trasferimenti l'economia e l'azienda dovevano andare avanti anche se ormai sotto il giogo tedesco non erano più in grado di prendere delle decisioni autonome.
Infatti nel 1944 l'Alfa Romeo su pressioni delle autorità tedesche dovette unirsi dapprima in un Consorzio con l'Isotta Fraschini, a cui si aggiunsero poi anche le Officine Reggiane formando una società denominata CARIM per la costruzione di alcune parti del motore Junkers.
Anche questo può dirsi un decentramento poichè tutti i macchinari erano stati trasferiti nelle grotte di Costozza sotto lo pseudonimo di Officine C, e si occupavano prevalentemente di aviazione ed in particolare della produzione di alberi motore.
Questo Consorzio, voluto e nato quando ormai la guerra volgeva alla fine, fu ben presto abbandonato dalle autorità tedesche che ormai procedevano nella loro ritirata verso il Nord. Presidente fu eletto Ugo Gobbato che ha dovuto sempre lottare, come si vede dai verbali del Consiglio d'Amministrazione, per avere i finanziamenti dalla Germania, che ormai dettava legge sull'economia italiana stabilendo prezzi e stipendi.
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e dopo l'uccisione di Gobbato, le sorti della società furono affidate a Pasquale Gallo; entrato prima come Commissario straordinario ne divenne poi Presidente, con il compito di "demilitarizzare" gli stabilimenti per essere di nuovo orientati verso la produzione di automobili e mezzi per il mercato civile. Nel 1946 l'Ing. Gallo informava il Consiglio d'Amministrazione che la vendita dei veicoli industriali si era mantenuta a buon livello, ma con una richiesta comunque troppo discontinua per poter portare l'Alfa Romeo ad un vero miglioramento economico.
Officina Se alla fine della Seconda Guerra Mondiale il problema maggiore dell'azienda era stato quello di conquistarsi un mercato anche cercando di battere la concorrenza americana che si stava facendo più forte, ora non era più soltanto una questione di mercato, ma l'azienda si trovava di fronte anche al fatto di dover ricostruire ciò che era andato rovinosamente distrutto negli anni precedenti. Per poter meglio attuare il risanamento si pensò anche di scorporare lo stabilimento S.Martino a Pomigliano, che, in quel particolare momento, rappresentava soltanto una fonte di perdite, ma alcuni consiglieri si opposero a questa decisione premendo affinchè si potesse convincere l'IRI a trovare una soluzione diversa al problema.
Effettivamente lo stabilimento risultava importante per la produzione di leghe leggere (Duralfa) omologate dall'Aeronautica Militare, e non poteva essere accettato un totale distaccamento da Milano, ma anzi si chiedeva che venisse completata quella costruzione interrotta con l'inizio della guerra. L'azienda dimostrava comunque una grande volontà di riprendersi e di partecipare attivamente alla ricostruzione, per questo non lasciò nulla di intentato, la sua produzione si orientò anche verso prodotti non tipici quali saracinesche, infissi, cucine elettriche e, nel contempo, gli operai cercavano anche di ricostruire gli stabilimenti distrutti del Portello, di riportare gli impianti decentrati alla base, riparando quelli danneggiati, cercando insomma di riportare l'Alfa Romeo ad uno stato prebellico.
Gli stabilimenti di Pomigliano restarono comunque aperti, e nel 1967 furono affiancati a quelli per la produzione della vettura Alfasud. Nel 1948 l'azienda passo direttamente sotto la direzione della Finmeccanica (nata poichè l'IRI, dovendo affrontare troppi problemi finanziari ed economici in campi industriali differenti, decise di creare direzioni diverse a seconda delle competenze ) e da quel momento la produzione cambiò: non più autocarri e motori marini, ma auto in serie che avrebbero trovato un buon riscontro di mercato e riportato l'Alfa Romeo a livelli precedenti il secondo conflitto mondiale.
Montaggio La vera ripresa si ebbe però solo negli anni '50 quando arrivò ai vertici dell'azienda Giuseppe Luraghi, già Direttore Generale della Finmeccanica, il quale aveva capito che la motorizzazione era ormai diventata un fenomeno di massa e che quindi anche la produzione doveva adeguarsi producendo vetture di tipo medio e più commerciabili.
L'Alfa Romeo venne così a trovarsi in una situazione economica favorevole tanto che nel 1960 venne cominciata la costruzione di nuovi stabilimenti ad Arese, che entrarono in funzione nel 1963, dato che ormai il solo Portello risultava insufficiente a sostenere i nuovi carichi di lavoro (si passò dalle 6104 unità del 1955 alle 57870 del 1960).
Sempre negli stessi anni si decise la creazione di un nuovo stabilimento a Pomigliano che doveva produrre vetture di fascia inferiore, la cui responsabilità di costruzione e gestione fu affidata all'Ing. Rodolfo Hruska. Questi furono realizzati in accordo con l'IRI e il Cipi vista la continua espansione del mercato automobilistico, e sulla base di alcune considerazioni dettate da obiettivi di sviluppo regionale e di investimento.
Rodolfo Hruska
Le ragioni che dettarono la riapertura dello stabilimento furono sostanzialmente tre:
  1. La forte immigrazione che dal sud si spostava verso il nord avrebbe ben presto fatto nascere notevoli problemi di sovraffollamento, per cui risultava improponibile la costruzione di un nuovo stabilimento al nord.
  2. In quegli anni, fu varata una legge che favoriva l'industrializzazione al sud e che permetteva di usufruire di facilitazioni finanziarie.
  3. L'Alfa Romeo aveva avuto già un'esperienza positiva negli anni '40 impiantando uno stabilimento al sud.
L'Alfasud, purtroppo, si trovò subito in serie difficoltà finanziarie poichè da una parte non riusciva a rispondere pienamente alle richieste del mercato, mentre dall'altra si trovava a dover affrontare non solo la crisi energetica, ma una più generale che comprese tutto il mondo dell'industrializzazione negli anni '70.
Si trovò quindi a dover riesaminare tutti i preventivi fatti precedentemente e che ormai non trovavano più riscontro nella nuova realta economica, in più doveva risolvere problemi interni causati dagli operai e dalle maestranze derivati dal disaccordo tra quelli arrivati dal nord e i nuovi assunti del sud.
In pratica il problema maggiore fu dato dal fatto che l'Alfasud non fu un'azienda del meridione, ma del nord; prova ne furono gli uffici che furono trasferiti a Napoli solo qualche anno dopo l'apertura dello stabilimento (1971), per cui fino ad allora avevano operato in un ambiente sociale ed economico differente a quello degli stabilimenti.
Nel 1972 Luraghi lasciava l'Alfa Romeo e questa si trovò ad affrontare un lungo periodo di transizione, coincidente con le massicce rivendicazioni sindacali e operaie che caratterizzarono gli anni '70, fino all'arrivo nel 1978 di Ettore Masaccesi il quale attuò una nuova ristrutturazione, la seconda dopo quella realizzata da Ugo Gobbato negli anni '30, per meglio inserirla nelle nuove congiunture economiche e di mercato.
La ristrutturazione interna prevedeva il risanamento finanziario e il rifacimento degli obiettivi che dovevano essere più rispondenti alla realtà; in pratica un'organizzazione non più orientata verso la tecnica, ma verso il mercato sviluppando sia le funzioni finanziarie che il Controllo di Gestione e la Direzione Commerciale.
L'Alfa Romeo non riuscì più a seguire il processo di crescita che aveva conosciuto con Luraghi, anche la Joint Venture con la casa automobilistica giapponese Nissan (AR.N.A. Alfa Romeo Nissan Autoveicoli), per la produzione di una nuova vettura, non dette i risultati sperati e nel 1986 la Finmeccanica la cedette al gruppo FIAT che la concentrò insieme con Lancia in un nuovo raggruppamento denominato "Alfa Lancia S.p.A.", divenuto operativo nel 1987.


L'Evoluzione del Marchio
Dal 1910 al 1915
1910-1915
Il marchio Alfa Romeo era costituito da due simboli milanesi: il serpente visconteo in campo azzurro e la croce rossa in campo bianco, racchiusi in un piccolo cerchio metallico sul quale si leggeva la scritta ALFA-MILANO. Sui modelli costruiti dal 1910 al 1915, il diametro esterno dello stemma era di 65 mm con le scritte ALFA e MILANO separate da due nodi sabaudi.

Dal 1915 al 1925
1915-1925
Quando la fabbrica fu acquistata da Nicola Romeo, sul piccolo cerchio metallico fu scritto: ALFA ROMEO-MILANO.

Dal 1925 al 1946
1925-1946
Dopo la vittoria del 1° Campionato Automobilistico del Mondo con la P2, il marchio venne circondato da una corona di alloro in metallo sbalzato. Il diametro del cerchio passò da 65 a 75 mm. Dal 1930 venne ridotto a 60 mm e rimase invariato fino al 1945.

Dal 1946 al 1972
1946-1972
Con la caduta della Monarchia e la proclamazione della Repubblica, i nodi sabaudi si trasformarono in due linee ondulate. Il diametro era di 54 mm. Dal 1950 fu realizzato in ottone smaltato conservando lo stesso diametro di 54 mm e dal 1960 venne eseguito in materiale plastico.

Dal 1972 ad oggi
1972-oggi
Con la costruzione dello stabilimento ALFASUD di Pomigliano, scomparve dal marchio la parola MILANO e rimasero i due simboli milanesi sormontati dalla scritta ALFA ROMEO.
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